La liberazione di Milano (Hulton Archive /Getty Images)

L'enigma della memoria

I figli di nessuno della Resistenza, orfani anche del primo antifascismo

Alfonso Berardinelli

All’origine non un’ideologia ma un istinto insieme morale e vitale. Il libro e il ricordo di Piergiorgio Bellocchio degli “uomini che si ribellavano in nome della propria libertà e dignità”

La mattina del 25 aprile mia moglie, Gabriella, a cui piace molto più che a me la folla e lo stare insieme, soprattutto se c’è una banda a suonare, dopo qualche minuto di televisione con Mattarella a piazza Venezia per le celebrazioni, è andata a cercare un vecchio 33 giri, che io avevo dimenticato, con le canzoni della Resistenza, da Fischia il vento a Bella ciao. Ecco: mentre il nostro inno nazionale mi ha sempre commosso poco (e mi dispiace), quelle canzoni invece, almeno alcune, qualche brivido me lo danno. Allora non ho potuto fare a meno di pensare al mio amico più prossimo e frequentato in età adulta, Piergiorgio Bellocchio, il cui maggiore rimpianto politico era di non avere avuto l’età per fare il partigiano, nel 1943 aveva undici anni. Non me ne parlava molto, eppure sentiva in sé quel vuoto di esperienza. I suoi dubbi sul Sessantotto erano molti, nonostante avesse fondato e diretto dal 1962 al 1983 Quaderni piacentini, rivista considerata e poi ricordata come autorevolmente colpevole di “sessantottismo”. Nel suo Diario del Novecento uscito postumo nel maggio dell’anno scorso, a un solo mese dalla sua scomparsa, Piergiorgio parla spesso di storia italiana, di fascismo e antifascismo, di comunismo e anticomunismo. Mi limito a una pagina che riguarda direttamente la nascita della Resistenza contro il “nazifascismo”, cioè contro quel fascismo che si mise al servizio dell’occupazione nazista in Italia, delle sue stragi terroristiche di civili.

 

C’era un’ideologia politica all’origine della Resistenza? No, c’era piuttosto un istinto immediato, insieme morale e vitale: “Al ragazzo undicenne che ero, quell’estate del 1943 non era venuto meno un certo ideale cavalleresco, di coraggio e d’onore. A venir meno fu solo la fede che l’ideale fosse rappresentato dalla mitologia fascista. Per arrivare a un giudizio fondato sul fascismo, mi ci vollero anni e anni: letture, riflessioni e soprattutto la testimonianza orale di tanti che quell’esperienza l’avevano vissuta da adulti. Ma già nell’inverno ’43-’44, m’era bastato vedere i primi partigiani per sentire ch’erano loro la vivente incarnazione di quell’ideale. Per i nazifascisti erano ‘ribelli’, ma quell’epiteto discriminatorio e criminalizzante essi l’avevano orgogliosamente fatto proprio. ‘Fuori legge’ e ‘banditi’, li bollava ancora la falsa legalità degli occupanti. Ricordo ancora una delle loro prime canzoni: ‘Figli di nessuno…, senza padre, senza madre, senza un nome’. E lo erano veramente, ‘figli di nessuno’, orfani anche dell’antifascismo della passata generazione che non avevano potuto conoscere”. L’antifascismo era stato quello di coloro che lo avevano interpretato e ostacolato fin dal principio degli anni Venti, quello cioè ragionato a fondo e diagnosticato da generazioni prefasciste come quelle di Salvemini e Croce, di Matteotti e dei Rosselli, di Gramsci e Noventa, di Giovanni Amendola e Gobetti. La Resistenza era invece un fenomeno nuovo che presupponeva l’intera esperienza fascista: dittatura e persecuzioni, retorica nazionalistica e inefficienza, leggi razziali e guerra a fianco della Germania di Hitler. La Resistenza nasceva dalle nuove generazioni allevate in un patriottismo roboante, fatuo e falso: nasceva perciò dal crollo drammatico di un’ideologia e di una politica irresponsabili e cieche, i cui effetti catastrofici per l’Italia erano di per sé un insegnamento. Sapendo poco o niente di antifascismo, i giovani partigiani del 1943-45 decidevano di combattere e rischiare la vita anzitutto per non ubbidire più a uno stato che li aveva ingannati.

 

“La storia”, continua Bellocchio, “dopo tanta fantasticheria ed epica libresca l’avevo davanti a me, e non si presentava sotto il segno della continuità ma della frattura. Non compimento, ma inizio. Era fatta da uomini in carne ed ossa che si ribellavano in nome della propria libertà e dignità. Anche la parola ‘patria’ tornava ad avere un senso. Per moltissimi la scelta fu questione di pochi giorni, di ore… Non c’era né il tempo né la possibilità di riflettere. Non c’erano padri o maestri: ‘figli di nessuno’… Disubbidire all’autorità per ubbidire alla giustizia: fra i tanti che lo fecero, forse erano pochi quelli che ne ebbero chiara coscienza. Ma lo fecero”. Sto ricordando e citando i pensieri di un amico che mi manca, per il quale le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana sono uno dei libri da salvare dell’intero secolo scorso. Una serie di testi non letterari né filosofici, né propriamente o strettamente politici, ma dettati da “sentimenti e idealità” che possono muovere e cambiare la vita di individui di ogni classe sociale e tipo di cultura: “Leggendo, anni dopo, dell’avvio della Riforma protestante, m’è venuto di pensare che qualcosa del genere era successo in Italia tra il ‘43 e il ‘45: solo che da noi non c’era stato nessun Lutero nelle cui parole si riconoscessero e s’infiammassero monaci e artigiani, dottori e cavalieri, artisti, studenti, soldati, contadini… A questo straordinario ‘capitolo di storia’, cui per ragioni di età non potevo partecipare, ho solo assistito, ma non passivamente. Un alito di quel gran vento che aveva mosso migliaia di uomini alla ribellione e alla lotta, l’avevo sentito anch’io…” (pp. 104-105).

 

Righe in cui si parla di storia, e di una svolta storica italiana della quale, in mancanza di testimoni diretti, facciamo sempre più fatica a ricordarci. Ma come si fa a ricordare esperienze sentite ormai così remote? Anche chi, in questo 25 aprile, crede di giurare fedeltà alla Resistenza, chissà che cosa ha in mente. Martedì in trattoria, a un paio di metri di distanza, c’era una simpatica e sorridente cinquantenne che indossava una maglietta nera con una stella rossa e una scritta rossa: “Staffetta partigiana”. Le si può credere? Mi auguro solo (questo mi basterebbe) che non pensi all’Ucraina come a una minaccia Nato contro la libertà della Russia.