Foto Emilio Naranjo per Epa, via Ansa 

il foglio del weekend

Maria Kodama, gli occhi di Borges

Alberto Mingardi

Una vita con lo scrittore e sua moglie per cinquanta giorni. La passione per l’inglese antico, le polemiche, i sogni

Il loro primo incontro avvenne che lei aveva otto anni. “Ti offro povere strade, tramonti disperati, la luna dei laceri sobborghi”. E’ la sua insegnante di inglese a mettere sotto gli occhi di María Kodama quella poesia, Two English Poems. Non è che ci capii molto, spiegava, ma ne rimasi affascinata. Del resto nella vita è così: prima si sente attrazione, si prova interesse, poi si metterà ordine nelle idee.

 

Lo stesso le succede quando legge, poco dopo, Le rovine circolari, il cui protagonista “comprese che l’impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo”. “Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime”. E che diamine sarà una notte unanime? María non getta via il libro, in qualche modo quelle parole le rimangono addosso, diventano un pensiero felice.

 

Probabilmente tutto quello che è venuto dopo non ne è che una proiezione, un sogno che María Kodama s’è impegnata a sognare.

 

Scomparsa lunedì scorso, a 86 anni, Kodama nacque a Buenos Aires il 10 di marzo del 1937. Il padre, Yosaburo Kodama, era giapponese, la madre, Maria Antonia Schweitzer, era figlia di uno svizzero tedesco e di una spagnola. I due si separano che María ha appena tre anni. Diceva di essere “giapponese”, in ricordo affettuoso di un padre che la portava per musei e la nutriva con storie orientali. Della differenza fra Oriente e Occidente, Borges diceva quel che Sant’Agostino dice del tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”. Con María non ci sarà bisogno di spiegare.

   

Borges e Kodama, in carne e ossa, si incontrano per la prima volta quando lei ha dodici anni, a una conferenza. María si immagina un giorno insegnante ma è timidissima e non sa se le riuscirà, con la voce sottile che le è rimasta fino alla fine dei suoi giorni, di tener testa agli studenti. Poi entra in quella sala e se lo trova davanti, il grande scrittore, di una riservatezza timorosa, nascosto più che seduto dietro il tavolo dei relatori. Lui pure ha sempre sofferto la propria voce. “I timidi si riconoscono d’istinto, come animali della selva. Pensai che quel signore fosse più timido di me. Se può parlare in pubblico lui, potrò farlo anche io: quel pensiero mi diede una calma enorme”.

   

Non sembrano le stelle più propizie a un grande amore. Eppure. Qualche anno dopo, Kodama ha sedici anni e Borges cinquantaquattro, si trovano sulla soglia di una libreria. Maestro come sta. Salve. Lei gli racconta che ha deciso di studiare lettere, per leggere finalmente le tragedie nella lingua in cui vennero scritte. Lui gioca al vecchio marpione o poco ci manca, ma sempre Borges è. Dunque ammicca, esprimendole tutto il suo compiacimento per questo gusto delle lingue morte e poi le chiede non di uscire a cena ma se ha voglia di studiare, assieme, l’inglese antico. Nel senso di Shakespeare? No, molto prima, la lingua degli anglosassoni che hanno dominato le isole britanniche dopo i romani, una lingua germanica, primitiva e pura con “nemmeno cinquecento parole di derivazione latina”. La ragazza acconsente ma ci vorrà del tempo prima che da cosa nasca cosa. Intanto il grande scrittore le telefona, che in quegli anni vuol dire che le telefona a casa, dove c’è una mamma che alza la cornetta. La madre svizzero-spagnola va prevedibilmente su tutte le furie, cosa ci fai con quell’uomo che potrebbe essere tuo nonno, l’adorato padre giapponese, invece, abbozza (una sua ostilità dichiarata, civetterà Kodama, l’avrebbe trasformata “in una Lolita alla Nabokov”).

 

La consuetudine produce un’amicizia e l’amicizia qualcosa d’altro e quando nel 1975 muore la madre di Borges, l’imperiosa doña Leonor, Kodama comincia ad apparire al suo fianco, non solo in Argentina ma ovunque nel mondo la gloria letteraria conduca l’ex bibliotecario della Biblioteca nazionale di Buenos Aires.

 

“Ti offro il ricordo di una rosa gialla vista anni fa al tramonto, prima che tu nascessi”: quel verso di Two English Poems adesso ha tutt’altro sapore.

 

María è vista con sospetto, Borges la sposa cinquanta giorni prima di lasciare questa terra, in Paraguay perché in Argentina non si può divorziare e sua moglie resta la fidanzata di gioventù, poi persa e ritrovata, Elsa Millán, sposata nel 1967, avendone in cambio tre anni di infelicità. Vedova due mesi dopo essere diventata moglie, Kodama è da allora la custode della sua opera e della sua memoria.

 

Adolfo Bioy Casares la detesta, dice che al suo amico Borges non sarebbe mai venuto in mente di trasferirsi a Ginevra (Alberto Manguel  non è d’accordo: Borges “non si è mai lasciato forzare da nessuno”). María Kodama tira fuori le unghie: Borges, scrive, chiamava Bioy “il codardo”. Qualcuno si fissa su una faccenda di soldi. Alla fine degli anni Settanta Borges fa testamento, divide le sue sostanze (in Argentina e fuori) a metà fra María e Fanny, la governante di casa. Passano gli anni e lo scrittore rimette mano al documento, Fanny viene liquidata con poco o niente, María diventa l’unica erede. Per molti amici di vecchia data è un’artista del raggiro, un’ambiziosa che ha stregato un vecchio che sino ad allora era stato perennemente innamorato, ma infelicemente.

 

“Che ingiustizia”. Mario Vargas Llosa, in un poemetto dedicato all’autore di Finzioni, suggerisce che “visse leggendo e lesse vivendo / non è la stessa cosa / perché tutto nella vita / reale / lo impauriva, / soprattutto / il sesso e / il peronismo”. Solo con María, spiega in uno dei saggi inclusi nel recente Mezzo secolo con Borges (2020), cambia tutto: “grazie a lei, Borges, ottuagenario, ha vissuto anni splendidi, godendo non soltanto dei libri, la poesia e le idee, ma anche della vicinanza di una donna giovane, bella e colta, con la quale poteva parlare di tutto quello che lo appassionava e che, inoltre, gli ha fatto scoprire che la vita e i sentimenti potevano essere tanto o più eccitanti delle aporie di Zenone, la filosofia di Schopenhauer, la macchina per pensare di Raimondo Lullo o la poesia di William Blake”.

 

La prova è un libro sminuito dai borgesologi, Atlante (1984), una raccolta di fotografie (molte scattate da María) e rapidi commenti, brillantissimi ma rotondi, felici, la prosa è quella compiaciuta di uomo che si sente, finalmente, bene. María Kodama è “gli occhi di Borges”, formula magari un po’ trita, ma vera. Per lui vede “crepuscoli, città, giardini e persone, sempre diverse e uniche” e lo aiuta a tradurli in parole.

 

“Crepuscoli, città, giardini, persone” e dolciumi. “I cinesi pensano, alcuni cinesi hanno pensato e pensano tuttora, che ogni cosa nuova sulla terra proietti il suo archetipo nel cielo. Qualcuno o qualcosa ha ora l’archetipo della spada, l’archetipo del tavolo, l’archetipo dell’ode pindarica, l’archetipo del sillogismo, l’archetipo della clessidra, l’archetipo dell’orologio,  l’archetipo del telescopio, l’archetipo della bilancia (…). Ho personalmente osservato che non c’è nulla che non cerchi di essere il suo archetipo e a volte ci riesce. Basta essere innamorati per pensare che l’altro sia già il proprio archetipo. María Kodama ha comprato questa grande brioche alla pasticceria Aux Brioche de la Lune e mi ha detto, quando me l’ha portata in albergo, che era il suo archetipo. Ho capito subito che aveva ragione. Guardate la foto e giudicate”.

 

Come ha osservato Roberto Alifano, “erano poche le cose che per Borges si meritavano la serietà”. Il libro è soffuso di ironia. A Istanbul, María lo ritrae con il volto proteso verso uno dei sei minareti della moschea blu, il grande scrittore osserva: “Cartagine è l’esempio più evidente di una cultura calunniata: nulla possiamo saperne, nulla poté saperne Flaubert, se non ciò che riferiscono i suoi nemici”. Forse lo stesso si può dire della Turchia ma “che ne posso sapere io dopo tre giorni? Ho visto una città splendida, il Bosforo, il Corno d’Oro e lo sbocco sul Mar nero. Ho ascoltato un idioma gradevole che mi pare un tedesco più dolce. Bisognerà tornarci”.

 

Kodama, che a vederla, coi capelli striati, perennemente vestita di bianco, gli occhi di Borges protetti da spessi occhiali da sole, sembra una Yoko Ono più simpatica, amava ricordare che se Borges le aveva fatto leggere il Beowulf, lei gli aveva fatto ascoltare The Wall dei Pink Floyd. Perché non mettiamo su il disco per festeggiare il mio compleanno, diceva lui, è meglio di Happy Birthday to You, che a suo modo è un complimento, visto che non c’è canzone più cantata al mondo di quelle quattro note. Una volta Kodama e Borges erano a Madrid, aspettavano nella hall di un albergo che venissero a prenderli per cena, quando si avvicina Mick Jagger. Maestro, ho letto tutto quello che ha scritto. Attento che questo signore è Mick Jagger, dei Rolling Stones. Davvero? A me piace molto la vostra musica.

 

Non era solo l’anglosassone antico ad affascinare Borges. Considerava la letteratura inglese la più ricca del mondo e di tutti i dialoghi che intratteneva con se stesso, il primo e mai interrotto resta quello fra il Borges nipote della nonna inglese e il Borges nipote del colonnello Francisco.

 

“Ogni inglese è un’isola”. Atlante comincia con un omaggio a John Stuart Mill: “Credo che Stuart Mill sia stato il primo a parlare della molteplicità delle cause”. Il riferimento era al Sistema di logica che Borges aveva letto, come pure  Hume e Berkeley. Il padre era liberale e scettico, la madre cattolica, ha scritto Kodama: Jorge Luis seguì le orme del primo.
Nella biblioteca personale di Borges, che “non aveva idee astratte” e si sentiva più adatto a immaginare che a pensare, c’erano soprattutto libri di filosofia e c’era tutto il canone vittorian-edwardiano. Li aveva ereditati dalla nonna inglese. Per quel che si vede nel bel La Biblioteca de Borges curato da Fernando Flores Maio (2018), erano perlopiù quei mattoncini dall’aria inusitatamente solida, progettati per mille letture, che sono le prime edizioni a larga circolazione, i libri fatti per finire nelle mani di tutti o quasi in un mondo dove la prosperità industriale faceva della lettura lo streaming dei tempi. Autori diversissimi, che poi andranno a nascondersi nei suoi racconti: Stevenson, Coleridge, Conrad (“il più grande dei romanzieri”), Carlyle. Borges ama Carlyle, ama il suo Sartor Resartus perché non c’è libro di cui l’autore abbia “sentito con altrettanta intensità che questo mondo è irreale”, ma sa che è “un precursore del nazismo”, del collettivismo nazionalista in generale. Per Borges si tratta di pedagogia dell’odio, “mentalmente il nazismo non è altro che l’esacerbazione di un pregiudizio di cui sono vittime tutti gli uomini: la certezza della superiorità della propria patria, della propria lingua, della propria religione, del proprio sangue”. Il peronismo discende dallo stesso ceppo, Borges lo dice e lo scrive. I peronisti ricambiano la simpatia e lo rimuovono dalla biblioteca municipale del Barrio Sur di Buenos Aires, nominandolo ispettore di pollai.

 

María Kodama, nel suo Homenaje a Borges (2016) e per tutta la vita, ne ha difeso la memoria, anche suggerendo che le sue posizioni politiche erano tutto fuorché casuali bizzarrie. Quattro anni fa ha rispedito al mittente l’offerta del presidente peronista Fernandez di aprire un “museo Borges”, con seimila oggetti che, ha spiegato per avvocati, la governante Fanny aveva rubato da casa Borges. Prima s’era opposta a Cristina Kirchner, che voleva traslare i resti di Jorge Luis Borges dal cimitero di Plainpalais, a Ginevra (dove è sepolto sotto una lapide in inglese antico), a Buenos Aires. Lasciatelo dov’è, il suo corpo non appartiene allo stato, men che meno a questo.

 

Antiperonista per amore, a dicembre dello scorso anno María Kodama ha pubblicato con Claudia Farìas La divisa punzó, un saggio revisionista sul caudillo Juan Manuel de Rosas, amatissimo dai peronisti. Contro Rosas combatté il trisavolo materno di Borges, Manuel Isidoro Suarez, e lui stesso lo chiamava tiranno (“famosamente infame”). Kodama non riprende quei versi di Fervore di Buenos Aires dove Borges gli nega ogni grandezza (“Già Dio lo avrà dimenticato / ed è meno una ingiuria che una pietà / ritardare la sua infinita dissoluzione / con elemosine di odio”). In compenso cita la lettere che scambiò con Juan Bautista Alberdi, titano del liberalismo argentino e a ogni buon conto suo avversario, arruolando il filosofo, corrispondente garbato, fra i testimoni della difesa.

 

Quando divennero intimi, María Kodama raccontò a Borges di quell’incontro giovanile con le sue parole. Le rovine circolari e le affinità elettive. Il grande scrittore è stupito: sappi che quello è l’unico racconto che mi sia mai riuscito di scrivere in appena una settimana. Come dire: guarda che trame invisibili tesse il destino.

 

Una volta, erano negli Stati Uniti, “Borges si svegliò la mattina e mi dettò una poesia”, “Ein Traum”, su Kafka. L’autore di Finzioni scriveva e riscriveva, correggendosi continuamente. “Quella poesia è l’unica di tutta la sua opera che non corresse mai”, scriveva Kodama, “Mi disse che gli era stata dettata in sogno, esattamente come lui la dettò a me, e per questo non aveva diritto a cambiare nulla”. Il sogno di María Kodama adesso si è interrotto, ma che sogno. 

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