Ernest Renan in una fotografia del 1890 (Mary Evans)

Passato e presente

Tra Giorgia Meloni e Corrado Augias. Capire Renan per citarlo a dovere

Giovanni Belardelli

La polemica su Rep. ha attirato l'attenzione su un autore troppo spesso riportato a sproposito. La sua nazione non aveva bisogno solo del famoso "plebiscito di tutti i giorni", ma anche di un'eredità comune: un patrimonio che stiamo sempre più perdendo

Nei giorni scorsi una polemica sviluppatasi su Repubblica tra Corrado Augias e la presidente del Consiglio Meloni ha riportato all’attenzione un autore poco letto ma molto citato, Ernest Renan. A venire richiamata è soprattutto la sua conferenza “Che cos’è una nazione” del 1882: un testo famoso, ma che da noi poco ha circolato. È stato pubblicato la prima volta solo più di un secolo dopo: nel 1993 dall’editore Donzelli e poi nel 2019 da Castelvecchi; un ritardo in cui ha molto influito il tabù verso l’intero campo semantico della nazione affermatosi in Italia dopo il 1945. Comunque, prima e dopo queste edizioni non si contano quelli che hanno citato la definizione data da Renan della nazione come un “plebiscito di tutti i giorni”. Definizione giustamente celebre, poiché riassume efficacemente un elemento essenziale della nazione democratica: la volontà di stare assieme dei cittadini, la disponibilità continuamente rinnovata a riconoscersi come una comunità nazionale. Per questo aspetto Renan non diceva cose molto diverse da quelle ripetute per tutta la vita da Giuseppe Mazzini, anche lui teorico di una concezione “volontaristica” della nazione, che ne individuava un principio essenziale nel consenso dei suoi componenti contro ogni idea fondata invece sull’elemento oggettivo della “razza”.

 

Fin qui tutto semplice. Le cose si complicano se richiamiamo un paio di altri aspetti del testo di Renan, che hanno entrambi a che fare con l’importanza attribuita al passato collettivo, alla storia di una determinata nazione, in senso sia negativo che positivo. Anzitutto, dal punto di vista negativo, la conoscenza del passato secondo lui poteva rappresentare anche un pericolo, poiché riportava alla luce i “fatti di violenza” che stanno all’origine di tutti gli stati nazionali. Ne era così convinto Renan da formulare un insolito richiamo – anche questo abbastanza noto – all’importanza dell’oblio, cioè alla necessità che una nazione sappia dimenticare certe pagine buie della propria storia. Ad esempio, scriveva, “ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo”, quando erano stati uccisi migliaia di ugonotti: bisognava dimenticare in sostanza gli episodi in cui dei francesi avevano combattuto e ucciso altri francesi, le guerre civili insomma. E qui si intravvede per noi italiani qualche problema, impegnato com’è il nostro paese, o almeno una sua parte, a fare il contrario, a combattere da sempre (e chissà, per sempre?) la battaglia tra un fascismo “sempre in agguato” e un antifascismo che perciò ritiene di non poter mai smobilitare. Una battaglia, è appena il caso di aggiungere, alla quale contribuiscono sia gli antifascisti perennemente militanti sia i collezionisti di citazioni e busti del duce.

 

Ma le cose si complicano ancora di più – e qui la questione non riguarda solo l’Italia – se guardiamo a quel che Renan scriveva sull’importanza che riveste per una nazione avere un passato comune in cui riconoscersi. Perché a suo avviso la nazione si compone appunto non di uno ma di due elementi, entrambi essenziali: “avere glorie comuni nel passato, una volontà comune nel presente”. Ha bisogno dunque del già citato plebiscito di tutti i giorni, certo, ma anche di potersi avvalere di una “ricca eredità di ricordi”. E questo è diventato problematico da almeno qualche decennio, non solo in Italia. In tutte le democrazie europee, infatti, si è affermato un dovere della memoria, come obbligo del buon cittadino, che implica la necessità di ricordare il passato del proprio paese sì, ma anzitutto per le tragedie che vi hanno avuto luogo e per i crimini che vi sono stati commessi. Quando Renan scriveva, e ancora per qualche decennio dopo di lui, le ricorrenze ufficiali celebravano – di solito con molta retorica ed esagerazione – i successi della nazione, a cominciare naturalmente dalle vittorie militari. Oggi, non solo non consideriamo più come positive molte di quelle date, ma a essere al centro delle celebrazioni ufficiali sono soprattutto i crimini e gli orrori del recente passato, in primo luogo lo sterminio degli ebrei ma anche, in Italia, i morti nelle foibe o le vittime del terrorismo.

 

Si potrebbe sintetizzare questo epocale mutamento come un passaggio dalla centralità dell’eroe alla centralità della vittima, ben esemplificato, nel caso dell’Italia, dalla relativa marginalizzazione che ha subito la festa della Liberazione rispetto al Giorno della memoria: mentre il 25 aprile, nelle scuole, è ormai quasi ignorato, il 27 gennaio è diventato il perno di moltissime iniziative. Non meno eloquente il caso francese, dove a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso la memoria pubblica si è progressivamente spostata, come ha scritto uno storico francese, dal dovere di ricordare i “morti per la Francia” a quello di ricordare invece i “morti a causa della Francia”. E questo spostamento si presenta, se possibile, ancora più accentuato e radicale nel mondo anglosassone dove la critical race theory imputa all’intera storia occidentale di essersi fondata, dall’antica Grecia in poi, sul razzismo strutturale dei “bianchi”. Ma se il passato è diventato il luogo delle nostre colpe, ben difficilmente può ancora essere – sulla linea proposta da Renan – uno dei due pilastri di una nazione democratica. Qualcuno potrebbe concludere che non è poi un male, ma non ne sarei così sicuro.

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