Lo spettacolo di Roberto Andò
Il libro di La Capria funziona di più a teatro, perché è diversa la sensibilità che vi si respira
"Ferito a morte" è abitato da uomini napoletani “sfessati”, un'ottica maschile di stare al mondo e di vedere le donne come oggetto. Ma è anche costruito con una lingua viva e onirica, un uso particolarissimo del flusso di coscienza
Più dei dongiovanni compulsivi di Vitaliano Brancati, più delle fissazioni erotiche di Alberto Moravia fino al machismo dichiarato di Francesco Piccolo tanto per arrivare ai nostri giorni, se c’è una bandiera letteraria di un’ottica tremendamente maschile di stare al mondo e vedere le donne come oggetto – di piacere o disperazione non importa – questa è Ferito a morte di Raffaele La Capria. Ho tentato di amare questo romanzo, consapevole della sua potenza narrativa, della sua lingua viva e onirica, dell’uso innovativo di un particolarissimo flusso di coscienza, ma i suoi maschi napoletani “sfessati”, divisi fra conquiste femminili e prodezze acquatiche alla ricerca di povere cernie da infilzare per il puro gusto di farlo, nemmeno per cucinarsele, mi ha sempre generato un’oscura diffidenza quando non un vero e proprio fastidio. Adesso, preparandomi ad assistere alla (notevolissima) versione teatrale che ne ha dato Roberto Andò al teatro Argentina di Roma ho provato a tornarci su anche con la curiosità di capire come due intellettuali maschi sessantenni di oggi (lo stesso Andò ed Emanuele Trevi che ne ha curato l’adattamento per il teatro) se la sono cavata rispetto a certi stereotipi imbarazzanti.
E se lo spettacolo mi ha coinvolta più del libro, lo ammetto, è per la diversa sensibilità che vi si respira, pur nella necessaria fedeltà al romanzo. Resta la storia di un gruppo di vitelloni che se la spassano fra Napoli, Ischia e Positano, perdigiorno pettegoli che pesano le donne (come le cernie che infilzano) a grammi e chili di carne e di bellezza. Ma con parecchi “tagli”. Non è stata conservata, per esempio, una delle scene più forti e caratteristiche di Ferito a morte, quando nella piazzetta di Capri i soliti amici osservano le femmine che passano e fanno le loro pesanti valutazioni: “Fianchi troppo stretti, due foruncoli al posto delle tette…”. Mentre il giusto risalto è invece dato a un’altra scena che nel libro è solo una delle tante, ma che invece dà il senso della differenza sessuale. Quando Massimo e Carla sono in barca e lui ha preso una spigola. “Ma lei guardava la spigola nel fondo della barca: Perché l’hai uccisa? Cercai la risposta: quando la vedi sott’acqua è un’altra cosa, è così piena di vita, di bellezza, e tu vuoi possederla, non c’è scampo”.
Ecco il punto. Questo desiderio irrefrenabile e maschile di possedere (ed è significativo che possedere si traduca con l’uccidere) ciò che è vivo e bello. Personalmente mi spaventa. E non posso amare un romanzo in cui l’autore coincide perfettamente con questa visione del mondo. La Capria, mi si dirà, è stato grande in questo: nell’aver costruito un perfetto ritratto al tipico maschio latino degli anni Cinquanta. Il problema, per me, non è il ritratto: è il monumento. E’ questa monumentalizzazione, penso, a mettere a disagio tante lettrici. Non è un caso che Ferito a morte sia da sempre un romanzo di riferimento per lettori più che per lettrici.
Ma tornando allo spettacolo teatrale, una delle sue qualità è aver messo in risalto un’altra interpretazione del libro, forse lontana dalle intenzioni dell’autore, ma il bello della letteratura è la sua vitalità che la rende duratura nel tempo e qualcosa che sfuggiva al pubblico suo contemporaneo diventa chiara in un altro momento storico. Roberto Andò e Emanuele Trevi, non so quanto consapevolmente visto le dichiarazioni che ho letto sul loro lavoro, hanno finito col fare di Ferito a morte un testo finale, come un addio a una napoletanità superata e inattuale, perché ormai certe insistenze, certi sfottò, certi stereotipi rischiano la macchietta. Con l’aiuto, va detto, di ottimi attori – impossibile citarli tutti – che sono riusciti una volta tanto a essere napoletani senza essere caricaturali. Ma a essere disperati e, appunto, finali. Rinunciando, quasi sempre, a strappare l’inevitabile risata che, quando “Napoli canta”, ricade su testo e contesto come una maledizione.