Leonora Carrington, "Are you really serious?", 1953, in esposizione a città del Messico (Ansa) 

Leonora Carrington, l'ultima dei surrealisti

Valentina Bruschi

La ribelle colorata. Ha anticipato l’universo femminista nella pittura come nella scrittura. Un saggio di Giulia Ingarao

"Non era un poeta ma una poesia che cammina, che sorride, che schiudendo le labbra diventa uccello, poi pesce, poi sparisce". Con queste parole l’intellettuale messicano Octavio Paz descrive l’amica Leonora Carrington, pittrice, scultrice, illustratrice ma anche scrittrice e drammaturga dallo stile inconfondibile, la cui ricerca anticipò le più importanti tendenze artistiche contemporanee. Maestra delle trasmutazioni alchemiche e delle metamorfosi tra umani e animali che popolano le sue misteriose pitture, l’artista, scomparsa all’età di 94 anni nel 2011, durante la sua lunga vita ha percorso il mondo, trasferendosi prima nelle capitali dell’arte in Europa, poi a New York e infine a Città del Messico, luogo dove si stabilirà e trascorrerà la parte più lunga della sua vita.

 

La Carrington ha anche attraversato cronologicamente tutto il Novecento, con le sue vicende drammatiche su scala mondiale, arrivando “giù in fondo”, a livello personale, come recita il titolo del racconto del viaggio allucinatorio nella follia avvenuto nel 1937. Fu in quell’anno infatti che venne rinchiusa in un istituto psichiatrico spagnolo per sei mesi, sopraffatta non solo dalle sue stesse terribili immaginazioni, ma anche dal sadico medico che la seguiva. L’artista, pur rimanendo segnata a vita da quella terribile esperienza, riuscì però a superarla mantenendo indenne la propria creatività, nonostante le pesanti droghe lì somministratele, e questo grazie a una grande forza interiore che alimentò la sua ferma convinzione che a confinarla prima in un convento e poi in manicomio non fosse stata una sua reale patologia psichica, bensì le sue idee politiche che, in quella Spagna ormai franchista, dovevano avere indotto le autorità a rinchiuderla, con l’autorizzazione del console britannico e il consenso del padre.  Spesso le sue vicende biografiche extra-ordinarie hanno oscurato la potenza della sua arte, in seguito però rivalutata, avendo diversi studiosi indagato, dalla sua scomparsa, la reale portata rivoluzionaria del suo lavoro che ha anticipato molte delle tendenze intellettuali più urgenti oggi. 

 
L’attualità dell’opera di Leonora Carrington è forse la “risposta al sempre più incalzante bisogno di spiritualità della società contemporanea”, afferma la studiosa Giulia Ingarao nella nota alla seconda edizione, uscita quest’anno, del suo pionieristico studio in Italia pubblicato nel 2014, dal titolo Leonora Carrington – un viaggio nel Novecento. Dal sogno surrealista alla magia del Messico (Mimesis). “In questi anni la sua produzione è stata oggetto di studio e di un interesse internazionale crescente. Soprattutto si è sviluppato un filone di ricerca strettamente legato alla relazione tra arte e magia, tema dominante nelle figure e dei paesaggi sincretici dipinti da Carrington”.


Leggere il libro di Giulia Ingarao, nel seguire le tracce che portano a individuare l’intensità della carica artistica di Leonora Carrington, è come attraversare il secolo scorso lungo il racconto della vita e dell’arte – in questo caso strettamente connesse – di una donna che, incarnando l’essenza dello spirito libero, ha seguito le sue inclinazioni più autentiche e reso concrete le sue visioni fantastiche. 


Il lavoro della Ingarao riesce a tratteggiare, in tante delle sue molteplici e per nulla facili sfaccettature, il profilo umano e artistico di una figura emblematica che già negli anni Cinquanta aveva precorso una delle più importanti rivoluzioni che hanno caratterizzato l’arte del Novecento: quella dell’autocoscienza femminile e della conseguente costruzione di un immaginario alternativo, magico ed ecologico, oggi diremmo eco-femminista.


Un’artista erroneamente considerata, per tanto tempo in Europa, semplicemente “la musa” dei surrealisti o conosciuta più attraverso gli eventi eccezionali della sua vita rocambolesca che inizia nella natia Inghilterra – dove la sua bellezza irregolare viene immortalata dagli scatti di Cecil Beaton nel 1934, prima del ballo delle debuttanti all’Hotel Ritz di Piccadilly – e continua con il trasferimento a Parigi in fuga da un ambiente familiare patriarcale e soffocante, dopo l’incontro con Max Ernst a una mostra sul Surrealismo: “Mi sono innamorata dei dipinti di Max prima di innamorarmi di lui”, avrebbe poi detto Leonora. Nonostante lo scandalo che la differenza di età e la situazione sentimentale del pittore suscitarono tra i benpensanti dell’epoca (la Carrington aveva 19 anni, Ernst 46 ed era ancora sposato con la sua terza moglie), i due vivono il loro “amour-fou”, alla fine degli anni Trenta, nella capitale dell’arte mondiale in rue Jacob, a due passi dalla casa dell’amico Picasso. Ernst la chiamava la sua “sposa nel vento” o “femme-enfant”, ma la loro unione irregolare fu tanto osteggiata dal padre della Carrington che arrivò a rinnegare la figlia “che aveva scelto per compagno un “anziano pittore di pornografie”” e cercò di boicottare in tutti i modi sia la loro relazione amorosa che la carriera di Ernst. La coppia decide dunque di trasferirsi nel Sud della Francia, dove spesso viene raggiunta dagli amici surrealisti. Sono le opere dei due artisti a decorare la loro casa in Provenza e – come documentano le immagini del libro di Giulia Ingarao – “porte, finestre e mobili si animano di creature metamorfiche create dalla fresca fantasia della giovane inglese”. Un periodo di grande creatività, immortalato nelle celebri fotografie di Lee Miller e di cui rimane traccia nei dipinti di entrambi gli autori, oggi conservati nei musei più importanti del mondo. L’idillio viene interrotto bruscamente dallo scoppio della Seconda guerra mondiale e, avendo dichiarato la Germania guerra alla Francia, il tedesco Ernest, nonostante fosse antinazista, viene considerato un nemico straniero e internato in un campo di reclusione. Da qui inizia un vortice negativo di eventi, culminante in una crisi psicotica della Carrington, dalla sua fuga dalla Francia occupata all’esperienza infernale del manicomio in Spagna. Riesce a scappare da quel luogo da incubo e trova asilo all’ambasciata messicana di Lisbona dove chiede aiuto al giornalista Renato Leduc, da lei incontrato in precedenza a Parigi con Picasso. Leduc diventerà il suo primo marito ed è insieme con lui che, nel 1941, la Carrington raggiunge l’altra sponda dell’Atlantico. “Il viaggio dall’Europa all’America coincide con la trasformazione epocale che, a principio degli anni Quaranta, si sta compiendo nella storia dell’arte, con lo spostamento del centro creativo da Parigi a New York, dove gli esuli europei si riuniscono e dove Peggy Guggenheim fornisce un contributo fondamentale per costruire l’arte del futuro”.


Nel periodo di circa un anno che Leonora passa a New York, ritrova tutti gli artisti esiliati dall’Europa nazifascista, tra cui Max Ernst, che nel frattempo era diventato il compagno della miliardaria e collezionista Peggy Guggenheim, la quale aveva aiutato molti di loro a fuggire negli Usa. “Leonora incontra spesso Breton e Buñuel (…) poi anche Masson, Chagall, Duchamp, Léger e Mondrian” e “partecipa alla mostra 31 Women, organizzata da Peggy Guggenheim, un evento di fondamentale importanza che, per la prima volta, conferisce alle artiste visibilità all’interno dello scenario contemporaneo”. 


Nell’asta serale “Arte del XX secolo” da Sotheby’s a New York, lo scorso 15 novembre, l’opera di Leonora Carrington, Schizzi preliminari per l’Opus Siniestrus (Festa cannibale), olio su tela del 1965, è stata battuta per quasi due milioni di dollari. Una cifra che conferma i record d’asta raggiunti nell’ultimo decennio, da quando l’attenzione della critica, e di conseguenza anche del mercato, si è focalizzata sulla straordinaria e prolifica opera di quest’artista visionaria. “L’ultima surrealista”, scrisse il New York Times in occasione della sua scomparsa, perché con lei finiva una generazione di artisti e intellettuali che aveva condiviso il percorso artistico con personalità quali Joan Mirò e Salvador Dalì. Nonostante l’influenza di questo straordinario milieu di intellettuali sia rintracciabile soprattutto nelle opere giovanili di Leonora Carrington, lei ha spesso rifiutato l’etichetta di surrealista, rivendicando lo sviluppo autonomo del suo percorso artistico e letterario. Un atteggiamento che la accomuna all’altra grande artista messicana, Frida Kahlo: anche quest’ultima ha sempre affermato di “non essere mai stata surrealista”, perché diceva di aver sempre dipinto la sua realtà, non i suoi sogni. In Messico è la realtà una “surrealtà”. A proposito di sogni, domani si chiude anche la 59° Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, a cura di Cecilia Alemani, il cui titolo evocativo, Il latte dei sogni, è preso da un libro (pubblicato postumo nel 2013) con le favole scritte e illustrate dalla Carrington sulle mura della cameretta dei suoi figli negli anni Cinquanta. Qui l’artista descrive un mondo magico popolato da esseri ibridi, capaci di incredibili metamorfosi, nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso l’immaginazione e dove è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé. Una tematica perfetta per raccontare il tentativo degli artisti di oggi di rappresentare la complessità della nostra esistenza definita “post-umana”.

 
E’ in Messico che la Carrington produce la maggior parte delle sue opere e qui stringe forti legami con gli artisti esuli, dalla fotografa ungherese Kati Horna alla pittrice Remedios Varo, sua inseparabile amica e sodale con la quale forma un duo “eccentrico e attraente, che rappresenta un modello femminile insolito, soprattutto per il Messico dell’epoca”, circondato da gatti, come le streghe delle fiabe. Più tardi diventa la mentore di Alejandro Jodorowski, iniziandolo al mistero dei Tarocchi e partecipa alla nascita del movimento femminista messicano. Il testo di Ingarao presenta diverse tavole a colori che ci mostrano come “da questa terra adottiva rinascono, come fantasmi, i miti celtici della sua infanzia: magia, stregoneria e culto della morte tornano ad essere realtà quotidiana. La coesistenza così sentita tra culture profondamente diverse ma l’impossibilità di una fusione totale, aspetto che contraddistingue la civiltà messicana, la incuriosisce e ne stimola la creatività… approfondisce gli studi di alchimia e esoterismo, si accosta al buddismo tibetano, all’ermetismo e alla cabala ebraica”. 

 
Esempi di questo originale immaginario sono due opere del 1946-1947, che fanno riferimento anche alla “sconvolgente” esperienza della maternità: The Giantess (anche noto come The Guardian of the Egg), dove “una donna di immense proporzioni si impone su una popolazione di lillipuziani in guerra” e L’amore che move il sole e l’altre stelle, in cui “una processione di donne e giovinette accompagna il sacro transitare di un carro del firmamento colmo di polvere di stelle… trainato da un cavallo celeste”. Il sincretismo tipico dell’opera dell’artista fonde culture e epoche diverse, il mito de La Dea Bianca di Robert Graves (libro determinante per l’artista, avida lettrice) e La Divina Commedia di Dante, autore amato sin dall’inizio e approfondito durante i suoi studi a Firenze, insieme alla scoperta dei pittori fiorentini e senesi pre-rinascimentali e il loro uso anti-naturalistico del colore. 

  
Gli animali-guida hanno da sempre popolato l’immaginario di Carrington perché essi “agiscono in modo assai più ragionevole e brillante degli esseri umani”. Infatti, nelle opere dell’artista si “crea un legame profondo tra la donna e il mondo animale, stabilendo un sodalizio archetipico la cui forza si radica nel potere primigenio della natura”. Visioni che spesso, declinando il nonsense inglese della letteratura letta nell’infanzia (Lewis Carrol e Jonathan Swift) con l’humour macabro della cultura messicana, mettono in discussione le nozioni patriarcali occidentali su cosa dovrebbe essere la realtà. Si può dire che i protagonisti dell’opera della Carrington sono gli animali, spesso abbinati alle donne, considerati forme di vita di uguale importanza. Iconografie che ritornano anche nella ricca produzione di arazzi, alla quale si dedica insieme al secondo marito, l’esule ebreo ungherese Csiki Weisz, collaboratore di Robert Capa, nei quali è evidente l’influenza e la collaborazione degli artigiani locali. Turbata dal disboscamento, l’artista – vicina al mondo degli indigeni anche dopo un periodo trascorso nelle foreste del Chiapas – trova corrispondenze tra la fauna che popola il suo universo pittorico e quel culto rispettoso del mondo animale praticato quotidianamente dai Maya, nella comune utopia di un mondo interspecie. 

Di più su questi argomenti: