Amos Cassioli, Lorenzo dei Medici mostra a Galeazzo Sforza le suppellettili artistiche da lui raccolte, 1868, Foto Claudio Giusti 

Il denaro come opera d'arte

Maurizio Crippa

Banchieri, collezionisti e mecenati. Dai Medici ai Rothschild fino a Mattioli. Una mostra alle Gallerie d’Italia sul ruolo positivo della ricchezza nel creare bellezza e valore pubblico. Lezioni per un mondo che detesta la finanza

Giunti quasi in fondo al percorso spicca isolata, come un ammonimento, una grande figura androgina avvolta in un panneggio candido, il marmo di Carrara scolpito da Giacomo Manzù per quella che avrebbe dovuto essere la tomba di Raffaele Mattioli. E’ l’Angelo della Resurrezione, tuttora all’Abbazia di Chiaravalle dove il grande banchiere mecenate, sostenitore di tutte le arti per “liberarle d’ogni forma di servilismo”, aveva progettato di avere la sua sepoltura. Con un ammicco esoterico che non stonava con l’illuminismo del personaggio, nel basamento della statua volle inciso un versetto dal Salmo 138, Resurrexi et adhuc tecum sum, “Risorsi e sono di nuovo con te”. Non l’esoterismo o la religione importano in questa bellissima mostra, nell’ultima sezione dedicata appunto a Mattioli. Ma certo quell’idea di permanenza nello spirito – affidata all’arte attraverso un grande scultore che fu suo amico e parte della sua cerchia – rende alla perfezione l’idea di che cosa intendesse, il grande banchiere di sistema, per mecenatismo. Proprio qui, nei palazzi ora delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo in piazza della Scala, che un tempo furono la sede di Comit e anche la sua casa-studio-rifugio. “Mi resi conto di essere in presenza di un patriarca del Rinascimento offerto temporaneamente in prestito al ventesimo secolo”, scrisse di lui lo scrittore moravo-americano Joseph Wechsberg. Ricchezza produce bellezza, e viceversa la bellezza amplifica i significati e le possibilità della “roba”, come la definiva Mattioli: il denaro come una merce da trafficare. Il mecenatismo moderno nasce da questa concezione.

 

A Milano, l’idea è divenuta una splendida passeggiata attraverso i secoli, dove si possono incontrare un busto di terracotta del Verrocchio custodito al Bargello e un ritratto di Hayez, una callotipia di viaggio realizzata da un mecenate viaggiatore come Nathaniel von Rothschild, il “Gesù di fronte a Caifa” di Gherardo delle Notti (qui filologicamente presentato col nome fiammingo, Gerrit van Honthorst), una pettegola “Toilette” di François Boucher, il ritrattista di Madame de Pompadour, appartenuta appunto al Rothschild di ramo viennese, o una “Natura morta” di Morandi della collezione di Mattioli e che viene esposta per la prima volta. E’ la mostraDai Medici ai Rothschild. Mecenati, collezionisti, filantropi”, appena inaugurata (fino al 26 marzo 2023), che Gallerie d’Italia ha realizzato in partnership con i Musei del Bargello e la Alte Nationalgalerie - Staatliche Museen di Berlino. Impresa cospicua, oltre 120 opere di diverse epoche e un sistema di prestiti prestigioso: la National Gallery di Londra e il Louvre, l’Albertina di Vienna e la Morgan Library & Museum di New York. Un piacere per gli occhi, ma ancor più uno stimolo alla conoscenza, per chi sappia leggere l’intenzione non è solo espositiva e il sottotesto che la guida.

  
In questi giorni in cui in Qatar si disputano Mondiali di calcio particolarmente contestati per i costi, anche umani, e per il significato politico – la sponsorizzazione dello sport pende più dal lato dei circenses che da quello del mecenatismo –, visitando la mostra vien naturale pensare al destino del “Salvator Mundi” di dubbio Leonardo, venduto nel 2017 per 450 milioni di dollari da un oligarca russo presidente di una squadra di calcio a un principe saudita, intermediario del ministero della Cultura degli Emirati Arabi. Da allora, però, il costosissimo manufatto è invisibile, il Louvre di Abu Dhabi ne annunciò la strana scomparsa e ora sembra essere nascosto in una collezione privata degli Emirati. Ricchezza che privatizza e nasconde la bellezza. Del resto la nostra epoca è anche quella di imbecilli che per un malinteso attivismo ambientale imbrattano capolavori, perché non ne sanno riconoscere il valore collettivo, e in questo sono davvero “senza futuro”. Ma è anche il tempo in cui la ricchezza è contestata come ingiustificato privilegio ed è purtroppo vero che il mercato stellare dell’arte ha spesso come sbocco la chiusura nei caveau. Come sparite nel buio sono le collezioni degli oligarchi russi, satrapie orientali che dimostrano la grande differenza che esiste, e tutta a favore del capitalismo d’occidente, nella concezione del rapporto tra ricchezza, bellezza e fruizione. Tra l’arte come bene rifugio e l’arte come prestigio pubblico, mecenatismo, restituzione alla collettività.

  
E allora il vero testo, la partitura della mostra non è la pur godibile passeggiata, ma la volontà di testimoniare attraverso un passato che arriva all’oggi che esiste un modo diverso di produrre bellezza con la ricchezza. E di renderla patrimonio morale condiviso. E’ la storia di molte dinastie di banchieri filantropi e mecenati – dodici ne sono stati selezionati dai curatori, gli storici dell’arte Fernando Mazzocca e Sebastian Schütze dell’Università di Vienna. Si passeggia tra percorsi di collezionismo dall’antico al moderno, tra un Caravaggio e lo “stiacciato” della “Madonna della scala” di Michelangelo, un Canova e un Thorvaldsen, documenti e disegni, scoprendo l’intreccio tra gusto privato e d’epoca, tra mercato e reti di collezionismo che facevano di Roma e Milano capitali internazionali. 


“Un’originale e raffinata esposizione che racconta come dal Rinascimento all’età moderna la relazione tra banchieri e artisti abbia trasformato la ricchezza finanziaria in un patrimonio artistico di inestimabile valore. La fiducia e l’appoggio accordato a grandi artisti da figure illuminate di banchieri e mecenati hanno prodotto nel corso dei secoli la nascita di tanti capolavori”, dice Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa Sanpaolo, e non è difficile intuire che a questa nuova impresa il Professore sia particolarmente legato, poiché la “storia del mecenatismo interessa in modo particolare  la nostra banca, costantemente impegnata a promuovere arte e cultura”.


Il ritratto di Lorenzo il Magnifico del Bronzino è la copertina del catalogo e dell’esposizione. Ma la mostra, costruita come una chiocciola e che parte ovviamente dai Medici, si dipana a partire da Cosimo il Vecchio, il Pater Patriae. Sulla parete accanto a un medaglione che lo ritrae si legge: “Della quale (ricchezza) non come molti arebbono fatto lui (Cosimo il Vecchio) fa: anzi, grato del beneficio da Dio ricevuto, a gloria della città di Firenze e a utilità di molti, n’ha spesi e spende tutto dì…”. Così l’artista e dotto umanista suo contemporaneo, il Filarete. Cosimo è infatti ancora un uomo a metà tra il medioevo religioso e comunale e il Faber che forgerà il futuro; teologia e diritto canonico per secoli avevano guardato con sospetto alla fortuna materiale che non fosse accompagnata da un riscatto morale, da un utilizzo a fin di bene. E Cosimo il Pater Patriae infatti è sepolto, come architrave che tutto regge, sotto l’altare della sua San Lorenzo. Poi verranno il Magnifico, e Agostino Chigi senese, e Jacob Fugger detto il Ricco e il dipanarsi di una rete finanziaria che era già globalizzazione, una globalizzazione in cui ben prima della benedizione della Riforma il denaro aveva smesso di essere problema etico. Il ruolo dei banchieri diventa prominente nella politica e nella vita sociale, ma ha bisogno di una trasformazione simbolica che diventa presto costruzione pubblica di un’immagine del potere. Lo splendido Rinascimento che si fa Europa, con una nuova e robusta morale della ricchezza non più moralista. Sarà illuminismo, e spirito del capitalismo, e sarà educazione degli Animal Spirits in America, con l’enorme tradizione delle charities filantropiche, delle fondazioni e del mecenatismo nel nuovo mondo. Spiega Bazoli: “Grandi banchieri che hanno voluto consacrare la loro ascesa sociale gareggiando con l’aristocrazia e i sovrani nel proteggere e incoraggiare gli artisti, anche acquistando le loro opere”. C’è una vignetta satirica del 1911, dalla rivista americana Puck: mostra John Pierpont Morgan, con regolamentare cilindro in testa, che con un enorme magnete a forma di dollaro attira a sé opere d’arte di ogni epoca e provenienza. J. P. Morgan, che poco dopo però trasferirà in un’operazione di mecenatismo pubblico molto di ciò che “il magnete” gli aveva procurato. Ma il percorso da una ricchezza che è accumulo privato, strumento di potere e investimento finanziario è lungo, con tappe intermedie. I tesori radunati a Milano sono, significativamente, oggi quasi tutti parte di collezioni che sono andate disperse, passate di mano, o confluite in musei pubblici.


Ma fin dall’inizio sostenere e scegliere gli artisti – il mecenatismo si allarga agli scrittori, ai musicisti, a qualunque talento della cultura – è anche un lavoro sapiente e raffinato.


Ci sono i Chigi e i Fugger che commissionavano grandi imprese a Raffaello o a Tiziano, ma non sempre basta la ricchezza per saper scommettere su Caravaggio, su Caspar David Friedrich. La mostra racconta anche figure straordinarie ma meno note al pubblico non specialista. Come Everhard Jabach, un abile uomo d’affari tedesco e cosmopolita, che fece fortuna alla corte di Luigi XIV, capace di fiutare a Londra la grande svendita delle collezioni reali (passata alla storia come Commonwealth Sale) dopo la decapitazione di Carlo I Stuart ed entrare in possesso di capolavori come la “Deposizione” di Tiziano o la “Morte della Vergine” di Caravaggio, per poi rivenderne gran parte al Re Sole a cifre strabilianti. O un banchiere calvinista come Moritz von Fries, protagonista nella Vienna illuminata di Maria Teresa. C’è anche un Ottocento ricco e lungimirante a Milano, personaggi degni di attenzione come Ambrogio Uboldo, splendido connoisseur che però, alla fine della sua vita, decise per testamento di donare la sua villa-collezione di Cernusco sul Naviglio perché diventasse un ospedale. O Heinrich “Enrico” Milyus, industriale tedesco e figura amata a Milano per le molte opere di bene educative, ma anche influente per le sue di relazioni di altissimo livello tra Germania e Italia, amico di Friedrich Schiller, Vincenzo Monti, Goethe e Manzoni. 


Oggi nel mercato dell’arte le banche e le grandi istituzioni economiche hanno assunto un profilo in parte diverso. Esiste sempre il sostegno mecenatistico ad artisti o specifiche iniziative; ma a livello globale è anche molto importante la valorizzazione dei patrimoni detenuti, sia in forma privata o messi a disposizione del pubblico. Non è irrilevante che, anche a livello internazionale, i più grandi fondi d’arte privata siano proprietà di banche, da JPMorgan Chase Art Collection a La Caixa Collection di Barcellona, che ne fanno la base per grandi operazioni di intervento culturale. 
Così, passeggiando tra un piccolo ritratto di famiglia o un oggetto antico, è interessante scoprire uno snodo chiave di questo mecenatismo. Alcuni infatti dei più grandi musei pubblici del mondo sono nati da donazioni o fondazioni di questi ricchissimi protagonisti e collezionisti. Il bene privato, specchio ed esibizione, si trasforma a poco a poco in un bene pubblico, spesso parte non secondaria di un “nation building”. “Dal Settecento i grandi collezionisti banchieri puntarono sempre più a una sistemazione duratura dei loro tesori a beneficio del pubblico”, scrive Fernando Mazzocca nel catalogo (Skira). E’ il caso della Alte Nationalgalerie di Berlino. Come racconta il suo direttore Ralph Gleis, il grande museo berlinese nasce con la generosa donazione di Heinrich Wilhelm Wagener, raffinatissimo mercante e banchiere berlinese, che decide di donare 262 dipinti, tra cui opere famose come la “Chiesa gotica su una roccia al mare” di Karl Friedrich Schinkel e “L’albero solitario” e “Il sorgere della luna sul mare” di Caspar Friedrich che esprimevano alla perfezione lo spirito romantico e di rinascita nazionale tedesco. Lo stesso accade un secolo dopo oltreoceano, con grandi banchieri con JP Morgan e Andrew Mellon con il figlio Paul, che decidono di trasferire molta parte delle loro collezioni in una dimensione pubblica. Così nascono la Pierpont Morgan Library di New York e il Mellon Center for British Art dell’Università di Yale. Ad  Andrew Mellon si deve soprattutto lo sviluppo della National Gallery of Washington nel 1937. Al museo successivamente il figlio donò 115 dipinti, tra cui Raffaello, Giorgione, Tiziano e Vermeer. Particolarmente significativa la figura di Mellon, per la potenza finanziaria ma anche per la qualità quasi visionaria delle sue operazioni: un banchiere americano in grado di comprare negli anni Trenta dall’Unione sovietica vari capolavori dell’Ermitage, una delle più grandi transazioni della storia del mercato d’arte, tra cui la celeberrima “Madonna d’Alba” di Raffaello, oggi una delle glorie alla National Gallery. Per non dire della potentissima e ramificata dinastia dei Rothschild, pura leggenda alla storia del collezionismo e anche della capacità di scoprire artisti che sarebbero entrati nei circuiti maggiori: da Ingres a Chopin a Mendelssohn. A Londra, Ferdinand de Rothschild destinò al British Museum la sua intera collezione del Rinascimento e l’inestimabile Reliquiario della Sacra Spina. La collezione di Edmond de Rothschild, oltre sessantamila opere, da Paolo Uccello a Leonardo, da Rembrandt a Dürer, arrivò negli anni Trenta al Louvre. Le traversie del secolo breve hanno avuto ovviamente un ruolo su transizioni di questo valore e sul disperdersi di enormi patrimoni. Ma c’è anche una vocazione e una scelta. Il nipote di Edmond nel 1969  donò al museo d’Israele di Gerusalemme l’intero contenuto settecentesco della “French Room” proveniente dalla residenza parigina di Courbet, e uno straordinario vaso etrusco al Museo d’Arte e Storia di Ginevra, la città della famiglia risiede da quasi due secoli.


Nel tempo, il rapporto tra denaro e bellezza ha mutato significato. 


Non più solo esibizione di potere e consenso sociale, non solo committenza, ma anche una capacità progettuale, in cui il mecenatismo-istituzione svolge un ruolo decisivo. Una capacità che Mazzocca individua, ancora, in Mattioli: “La consapevolezza che lo studio del passato avrebbe offerto la chiave di lettura del mondo contemporaneo e che la cultura avrebbe rappresentato un fondamentale strumento per la costruzione del futuro”. E si torna, tra lettere private, frontespizi preziosi e opere d’arte all’ultimo dei mecenati in mostra. Qui nel palazzo che per Mattioli era casa. E che, per uno di quei ghirigori mai casuali della storia, era stata inizialmente la casa dei Martinitt. Il conte Antonio Carlo Anguissola Tedeschi Secco Comneno, singolare figura della nobiltà milanese, cultore delle arti e delle scienze, acquisì infatti nel 1773 un’area  occupata dal Cinquecento dall’orfanotrofio di San Martino. E per edificare il suo Palazzo Anguissola, ora parte del complesso, i Martinetti furono  trasferiti nel convento di San Pietro in Gessate, in spazi più ampi ed adeguati alle necessità. Ricchezza, filantropia e mecenatismo. L’anno prossimo cadrà il cinquantesimo anniversario della morte di Mattioli, genius loci, e non è un caso che questa mostra volutamente a chiocciola, come volesse riflette anche su sé stessa – “I valori etici e culturali che hanno sempre guidato l’operato di Raffaele Mattioli verso obiettivi di interesse generale sono la sua eredità più importante. Un’eredità che continua a ispirare l’attività della nostra Banca” – ha ricordato Bazoli – si concluda con la sua collezione. Tra cui la “Natura morta” di Morandi, altro artista-amico, per la prima volta esposta.
 

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"