Fabio Rampelli (LaPresse)

La polemica

Povero italiano! Per i tossicomani dell'inglese urge un nuovo D'Annunzio

Camillo Langone

Il vicepresidente della Camera, in quota Fratelli d’Italia, dall’alto del suo scranno di Montecitorio ha precisato che non si dice dispenser bensì dispensatore. Un volontario alla crociata di Fabio Rampelli contro i termini stranieri

Come mi piace la piccola crociata di Fabio Rampelli per l’uso della lingua italiana. Mi arruolo anch’io, subito, qui. Il vicepresidente della Camera dei deputati, ovviamente in quota Fratelli d’Italia, dall’alto del suo scranno di Montecitorio ha precisato che non si dice dispenser bensì dispensatore. Siccome nel Parlamento italiano si parla italiano, e ci mancherebbe. Io oltre che alla parola sarei contrario anche alla cosa, all’osceno plasticoso oggetto che ancora oggi, in molte chiese italiane, occupa le acquasantiere al posto dell’acquasanta, documentando così la poca fede dei fedeli. Ma questo è un altro discorso e torno subito al vocabolario, anzi a Rampelli sul quale ha ironizzato, via Twitter, il solito Calenda incontinente: “Ammazza Fabio grande traguardo! Decisivo per famiglie e imprese. Dopo che hai cambiato nome al dispenser ti tocca cambiare anche Made in Italy. Una cosa tipo: fatto in Italia. Oppure ancora meglio: siamo parecchio fatti in Italia”.

 

A me invece i drogati sembrano gli altri, i tossicomani dell’inglese che non riescono a smettere di dire boomer, body shaming, catcalling, community, cringe, curvy, green, hater, mobbing, rider, rumor, testimonial, e news, fake news, breaking news, qualsiasi termine con news, così come mi sembravano profondamente narcotizzati quelli che dicevano lockdown e green pass per esprimere tetre realtà che io definivo chiusura, clausura, segregazione, lasciapassare. Mi sono sempre sembrati drogatissimi, per la precisione drogati di omosessualina (una droga che restringe l’area della consapevolezza, al contrario della mescalina cara ad Allen Ginsberg), quelli che usano la parola americana di tre lettere per dire omosessuale, ed è una parola che io mi onoro di non avere mai scritto né pronunciato. Me ne vanto perché siamo in pochissimi, una rarefatta aristocrazia del pensiero, ad avere resistito a questa parola ideologica, invadente e insultante, che presuppone tristi coloro che invece apprezzano l’Origine del Mondo.

Io non ho nemmeno mai detto “week end” e figuriamoci “buon week” o “buon we”, formule orrende che ogni venerdì mi vengono rovesciate addosso da interlocutori, spesso interlocutrici, suppergiù le stesse donne che dicono continuamente “ok” per dire sì, bene, d’accordo. 

Dunque bene Rampelli ma Rampelli non basta, adesso ci vorrebbe un nuovo Gabriele D’Annunzio, l’instancabile forgiatore di neologismi, alcuni particolarmente patriottici come tramezzino (al posto di sandwich) e arzente (al posto di brandy o cognac). O un nuovo Bruno Migliorini, intellettuale meno noto ma non meno prezioso, il linguista che introdusse la parola regista (si diceva “regisseur”, nel primo Novecento il problema anziché l’inglese era il francese) e la parola autista (al posto di “chaffeur”). Farebbe gioco anche un nuovo Paolo Monelli, il grande giornalista che nel 1933 pubblicò “Barbaro dominio. Processo a 500 parole esotiche”.

 

Capisco che le date possano indurre in sospetto ma ricordo che la battaglia contro la penetrazione delle lingue straniere non fu iniziata dal fascismo, primo perché D’Annunzio fascista non era, secondo perché cominciò almeno nell’Ottocento, con Giuseppe Rigutini (“Neologismi buoni e cattivi”, 1886) e Pietro Fanfani (“Lessico della corrotta italianità”, 1877) e prima ancora con Vittorio Alfieri: “Di gran lunga antepongo di scrivere in una lingua quasi che morta, e per un popolo morto, e di vedermi anche sepolto prima di morire, allo scrivere in codeste lingue sorde e mute, francese ed inglese”. Tragico ma vero, l’Astigiano. Che Carlo Calenda, fiero sostenitore del liceo classico, avrà certamente studiato: deve soltanto ripassarlo.