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Luchino Visconti, magnifico e spietato

Edoardo Rialti

L’amicizia e poi la frattura e il distacco: due destini incrociati in un mondo di relazioni caleidoscopiche. In libreria il ritratto appassionato di Visconti che Giovanni Testori scrisse negli anni 70, una lode che ha le cadenze della poesia

Il genio non è un dono, ma la via d’uscita che ci si inventa in casi disperati (Sartre)
Ustionati, commossi nuotiamo nelle parabole che descrivono questi amori  sbattuto a terra mi avvolgi nel velluto amico mio (Raein)


La notte. Dolce tempo benché nero. Tutto si posa. Il mondo animale e vegetale si parificano alla stabilità dei minerali, al corso degli astri. Anche gli uomini chiudono gli occhi. Eppure in quella polla di silenzio e solitudine, il rumore del mare interiore, al pari di quello che batte sulla spiaggia, si alza, parla più forte. “O notte, o dolce tempo, benché nero, / con pace ogn’opra sempr’al fin assalta; / ben vede e ben intende chi t’esalta, / e chi t’onor’ ha l’intelletto intero”. Benché nero. Lo sapeva bene Michelangelo, così come Giovanni Testori che proprio in una prefazione alle Rime dell’artista feroce e sublime scrisse che in esse egli “non intende recedere un solo attimo dal suo forsennato, implacabile corpo a corpo col corpo; il più tragico e inesorabile che la storia della poesia conosca… Probabilmente, alla resa dei conti, tutte le Rime non sono che un efferato e sublime ricatto. La bellezza è infinita, immensa, ma soprattutto è troppo”. Ed è proprio dalla notte che si posa sulla villa di un altro titano, la dimora di Luchino Visconti sulla Salaria, che egli prende le mosse per tessere un inno dell’amico regista, un’eulogia “inter et intus, come credo sia accaduto a pochi”. Lo osserva segreto e invisibile mentre intorno a lui cala “questa santa consolatrice dei nostri quotidiani dolori (o la vorremo chiamare questa seppellitrice santa e santa becchina degli ardimenti, delle furie e delle offese d’ogni giorno”.

   

Luchino mio. Il poeta e drammaturgo si rivolge direttamente a lui, lo contempla e lo scruta in quell’isola di tregua quotidiana dove tutto cala come una nave affondata negli abissi e che molti ammiratori, amici, conoscenti non sanno decifrare, “abituati forse al suo precedente modo d’esser solo (che era quello di gettarsi attorno intere corone coriandolate di gente)”, una pausa e un isolamento dove chiunque cerchi di creare qualcosa oscilla “tra il dolore inane del vuoto e la dolente costruzione del mondo”. Già questi pochi accenni di citazioni basterebbero a esprimere l’eccezionalità di un simile esercizio di attenzione e immedesimazione: “Chi riuscirà infatti a dire i pregi, le virtù, i dolori silenti, gli scandali, le concupiscenze, gli strazi, le ricchezze, le vastità, le ferite, le riparazioni, gli scontri, le paci, gli allarmi e le distensioni della vera solitudine, intendo di quella grande, di quella virilmente accettata, voluta, desiderata, aspettata?”.

 

Proprio denunciandone l’impossibilità, Testori ce l’ha fatta, con una lode che ha le cadenze della poesia, dell’epistola paolina, dell’omiletica regale e funebre di Massillon. Da lombardo a lombardo, a sua volta segnato da una cadenza vocale come risucchiata, egli però lo riconosce: “La nebbia è tua; t’appartiene. Ha infangato, fin dall’infanzia, la tua voce che serba in sé, oltre la cadenza, quel tanto di raschiato e di roco, come d’un irremovibile catarro, come d’una furia sempre virilmente trattenuta”. Sono parole dei primi anni 70. Un testo che però mai avrebbe visto la luce per oltre cinquant’anni – per la grave oscura rottura che intercorse tra autore e dedicatario – e che oggi, in occasione del centenario della nascita di Testori stesso, è finalmente disponibile per Feltrinelli, a cura di Giovanni Agosti. Una curatela dello storico dell’arte, bisogna dirlo subito, condotta con partecipazione e rigore, le cui note si leggono con entusiasmo affine a quello che si riserva al testo vero e proprio, per le porte che aprono su destini che si incrociano, un mondo di relazioni caleidoscopiche, infinite sigarette – Visconti arrivava a 120, battendo di scarto le 70 di Mastroianni – collaborazioni d’una vita e brevi momenti ironici o fatali, che è il Novecento stesso dell’arte, della moda, della poesia e della politica, da Longhi a Fassbinder, da Coco Chanel a Togliatti e Pasolini. Quel Pasolini di cui Visconti stesso dichiarò, affiancandolo a Testori, che “questi due giovani scrittori ci hanno ricordato che sotto la crosta del cosiddetto miracolo economico italiano ribolle un vulcano”. A percorrere le pagine di Testori manca il respiro, pressoché a ogni svolta. Per chi ami l’arte e il tributo che si cerca di rendere alle nostre esperienze più intense, imbattersi in parole così è francamente sconvolgente. Chiunque abbia cercato di creare qualcosa, di dirsi con forza e con un segreto bisogno di aiuto, vorrebbe sentirsi guardato così. Cosa mai si potrà scrivere su Visconti dopo questa partecipazione totale, la stessa che il poeta-pittore sapeva riservare a Bacon o Tanzio da Varallo. Come certe pagine di Steiner o Heaney, è una di quelle vette espressive dove critica e arte si fondono in un nodo inestricabile – e come tutte le espressioni compiute conciliano in fondo con l’esistenza stessa.

 

Proprio per l’intensità della compartecipazione dell’affetto, la frattura e il distacco tra i due furono come una mano strappata dalla punta di ferro di una cancellata, tanto più lacerante quanto gravida di conseguenze. La causa scatenante è tutt’ora difficile da esplicitare. Certamente contribuì l’esclusione dell’“angelo biondo” amato da Testori, Alain Toubas, da alcuni progetti di Visconti, e Testori, nei suoi rancori, sapeva essere devastante, feroce, rovesciando maledizioni bibliche su chi gli era stato amico o amante. Confidò poi: “L’ho conosciuto ai tempi di Rocco e i suoi fratelli, e per anni sono stato talmente suo amico che sono stato malissimo quando abbiamo litigato. Era meraviglioso come faceva recitare gli attori, meraviglioso come ti accoglieva a casa. Sembrava che arrivasse il re, quando arrivavi tu. Ma poteva anche essere spietato. Forse la sua passione segreta era dominare e poi distruggere. Credo per infelicità. Non so. Comunque è passato e, quando è morto, ho fatto pubblica ammenda alla Scala. Volevano che parlassi alla commemorazione e io ho detto che avevo litigato con lui, che era finita male e che gli chiedevo perdono”. Perdono, perdono, come quando, da bambino, il padre lo obbligò a chiederlo a tutti gli operai della loro ditta, dopo che il piccolo Giovanni si era vantato col figlio di un operaio per il profluvio di regali che aveva ricevuto a Natale. Si era nelle nebbie della Brianza, nel cosmo immaginativo che tanta parte avrebbe poi avuto in due grandi collaborazioni con Visconti, il duplice scandalo teatrale e cinematografico dell’Arialda e di Rocco e i suoi fratelli.

 

Si parte dunque dall’accoglienza regale in quella casa, da re a re. Anche Dirk Bogarde, sottile ed elusivo come un gatto, rimase ammaliato da quegli occhi e quel profilo da imperatore assiro. Un principe del Rinascimento per titolo e atteggiamento, circondato dai suoi cani, e dai suoi cavalli, erotici come nei dipinti di Géricault. La vita va all’arte ma l’arte non ritorna alla vita. Giustamente ci si sofferma più sulla seconda parte di questa affermazione di Buscaroli, tuttavia la prima non è meno vera o importante. Testori ripercorre così la biografia pubblica e privata di Luchino, la vede confluire nei protagonisti delle sue creazioni, in quella vorticosa, imprevedibile eppure coerente galleria di “eroi vulnerati e immensi”. Come lui. 

 

Al pari di pieno e vuoto, alte e basse maree, ogni tensione espressiva vibra tra armonia e squarcio, riposo ed esclusione. Testori li carezza entrambi, prende le mosse dall’infanzia dorata e austera di un capo inquieto che a quattordici anni aveva letto tutto Shakespeare e capitanato una rivolta-evasione in collegio, cresciuto da un padre – gran signore e donnaiolo con fantasie medievaleggianti a la Morris, che leggeva con strazio la Recherche, dispiaciuto a ogni pagina che lo portava più prossimo alla conclusione – e una madre che si faceva fotografare incoronata da piume di pavoni e dava balli i cui fotogrammi potrebbero sovrapporsi ai valzer del Gattopardo o a una serata dai Duchi di Guermantes. Tra le prove cui Silvana Mangano dovette sottoporsi per interpretare la madre di Tadzio, madre della bellezza e della morte, ci fu la sua naturalezza nel coprirsi testa e capello con la voilette, come Carla Erba. “Nel mio ricordo sarai sempre legata a mia madre” le disse il regista. Eppure già nelle foto del contino si intravede un marchio che lo isola, un’ombra, che proprio per questo gli permetterà di eternare quello stesso mondo fastoso, ipocrita, nominarlo per l’ultima volta mentre tutto attorno svanisce e continua a vibrare solo nel ricordo. “In te, nel tuo infantile corruccio, nella tua infantile e incomprensibile malinconia, cominciava ad aprirsi come una crepa, a formularsi come una dissonanza; quella crepa che poi s’è allargata; ha diviso e squartato, come una mannaia, tutta la tua esistenza. La mannaia fu quella del dolore, proprio e altrui”. L’adolescenza e giovinezza, come un tuffatore prima del gran salto, oscilla tra incertezze, tentativi, inquietudini. Abbozzi di romanzi, fughe mistiche nel Sahara come De Foucauld, l’allevamento di cavalli vincenti, portato avanti per anni già con la stessa dedizione e metodo assoluto che riserverà poi all’arte, dalla rivista al melodramma: “L’eccessivo estetico di Visconti, la sua timbratura quasi sempre unissona, il suo bisogno di violenza dimostrata e dimostrante stanno, non dalla parte della sicurezza, bensì da quella dell’abisso; essi sono il galoppo estremo del cavallo che giunge alle soglie del precipizio”. E poi, improvvisa, la rivelazione nella Parigi doveva aveva amato Coco Chanel e Horst P. Horst, che lo fotografò col viso in ombra e fronte e occhi in luce. La scoperta al tempo stesso del comunismo e del cinema, l’inaugurazione di uno sguardo diverso, l’ennesimo novo della cultura italiana, il neorealismo di Ossessione e La terra trema. Sono gli anni della Resistenza con Pietro Ingrao e Guido Aristarco, delle produzioni commissionate dal Pci e portate avanti impegnando i beni di famiglia, dei collaboratori senza stipendio compensati con fazzoletti di seta. Il talento fa quel che deve, il genio fa quel che può. Nicola Lagioia citò l’aforisma di Nietzsche per descrivere la sovrana libertà di Bolano o Tomasi di Lampedusa, fuori da ogni schema, aspettativa, pressione. Visconti si buttò su cinema, melodramma e teatro con una “sorta d’orgogliosa sfida e d’orgoglioso sadismo”, scrive Testori. Una bufera che pare sempre ripartire dagli albori stessi della creazione. “Una molteplicità d’urto; una molteplicità d’assalto” che si getta su invenzioni del tutto nuove, commistioni, scoperte, riscoperte. Le battaglie teatrali – “ricordo i tempi dell’Arialda, quando non mi riusciva di capire se era dispiaciuto o, invece, compiaciuto dell’immane casino che la faccenda aveva fatto scoppiare per tutta quanta l’Italia” – le imposizioni al pubblico quanto agli attori: la riduzione delle pause, la diffusione delle provocazioni di Cocteau. Durante La via del tabacco, un giovane Gassmann che investiva la nonna sentì la platea della Milano bene bofonchiare “Eh ma l’è la nonna!”. A Maria Callas Visconti insegnò a ispirarsi ai gesti ieratici delle anfore classiche o a gettare via una scarpa lasciandosi cadere su un divano. Le sue collaborazioni con gli stilisti hanno aperto le strade a chi avrebbe poi coinvolto in teatro Albini, Lagerfeld, Armani. Agli attori si dedicava con rigore seduttivo, infinita pazienza e staffilate feroci, come per i cavalli. “Speriamo che tu riesca a dirla sopra della merda”, comunicò a una interprete che non riusciva a cogliere una intonazione. Tutti ne sono usciti cambiati: Mastroianni, Orsini, Magnani, Stoppa, e poi ovviamente le sue creature al cinema, Delon, l’amato Berger dell’ultima fase della sua vita, Cardinale con quella “testa etrusca” cui chiese di recitare Angelica con una doppia faccia, nella quale labbra e occhi dicessero sempre cose opposte. Alcuni sono esplosi nel loro potenziale già presente, come Dirk Bogarde che in Morte a Venezia recitò anche solo con le spalle rivolte alla camera. Lancaster, che da ex cowboy e trapezista si affannava a trovare un modo d’impersonare il principe di Salina, improvvisamente vide che ce lo aveva di fronte, e si mise a imitare Luchino, pure in come si asciugava con l’accappatoio o metteva il profumo sulle guance. Come Zeus in foggia d’aquila rapì Ganimede e lo elevò ad altezze immortali e accecanti, i suoi artigli sapevano ferire gli amanti che plasmava, dominare fuori e dentro la scena, ma Testori sapeva bene che anche in questi flussi di potere e colpi inferti le correnti sono sempre reciproche: “E se tu, azzannando, ferisci l’anima su cui plani, sono ben certo che quell’anima ferisce nello stesso istante e in misura non minore anche te”. Per il profluvio di progetti sempre più vasti, diversi, per i doni che sapeva fare, per il gusto di vita con cui coinvolgeva e accoglieva, sceneggiatori, tecnici, dalle serate in villa a giocare a carte alle soste in pasticceria mentre si studiava una location, tutto sempre vasto, fuori scala, sembra che l’inno di Cleopatra ad Antonio morto sia stato scritto anche per lui: braccia levate come cimieri del mondo, voce che per gli amici si intonava alle sfere celesti e quando voleva scuotere era tuono di folgore. “La sua generosità non conosceva inverno. Era un autunno che più si vendemmiava più dava frutto”.

   

Gli eccessi decorativi di Visconti: un pieno che è l’altra faccia mistica del vuoto. I soldi, cercati “nella misura in cui gli permettono di continuare a disfarsene”. Le crudeltà di Fassbinder, i pugili di Scorsese, i corpi carezzati dalla camera di Guadagnino:  in tanti gli devono ancora qualcosa

    

Così il suo cinema, sovraccarico di idee, immagini, sollecitazioni. “Personaggi, trame, situazioni, siano esse di natura privata e familiare o siano di natura politica e sociale, una volta nelle mani di Luchino sembrano gonfiarsi come le vene nel momento in cui l’addetto (o l’addetta) ci lega il braccio per prepararci all’endovena; come un corpo o una cellula che fisicamente s’ingravidino di sé; o come una bocca in cui l’ingordigia abbia accumulato troppo cibo in una volta sola”. Dalla rigorosa finzione documentaristica dei suoi pescatori siciliani a Bruckner e Verdi che si intrecciano e scontrano come due correnti nel mondo al collasso di Senso. Solo Visconti poteva fondere la critica comunista di Gramsci all’Unità d’Italia all’aristocratico elogio che Tomasi di Lampedusa tributa all’organista borbonico Don Ciccio Tumeo – e, come scrisse Buttafuoco, a dar voce così a un’intera Italia sociale che si è sempre sentita esclusa dalla narrazione encomiastica e progressista da sussidiario. Tutto converge infine nel kitsch wagneriano di Ludwig, in quei castelli da fiaba puerili e strazianti al pari del loro mecenate che chiedeva solo di essere libero di perseguire la felicità anche nell’impossibile, come l’imperatore romano pazzo di Camus, facendo coincidere vita e arte non più nel bagliore di un lampo che per i Greci poteva essere la vittoria dell’atleta o il giovane con la sposa in braccio sulla soglia del talamo, ma una esistenza costantemente allo specchio, insidiata dal dubbio che l’arte sia frutto mero della grazia e non l’esercizio logorante della tenacia. 
Sugli eccessi decorativi di Visconti, tanto pallidamente imitati da zoppicanti epigoni, quanto avversati da altri ancora come ridondanti, fatui, molto si è dibattuto fin dallo scontro ideologico che egli ebbe a riguardo con Gassman. Ma il pieno, il prezioso sono solo l’altra faccia mistica del vuoto, come già testimoniava il barocco, e Testori ficca lo sguardo in quel profluvio di oggetti, accessori mai mostrati eppure presenti negli armadi e nei cassetti delle scenografie, e riconosce che è proprio “la poetica di far il pieno in modo che lo spazio risulti così stipato da trasformarsi in immagine ribaltata del vuoto; la stessa poetica per cui il vuoto di parole (e di costumi) che intercorre, come una trafittura di serpi e di luci tra Tadzio e il perseguito protagonista, si trasforma in immagine ribaltata della pienezza”. Come nel rapporto del gran signore con la ricchezza: “Luchino detesta i soldi; pur di disfarsene, pur di   arrivare a non averne, li getta e li sperpera; e li getta e li sperpera con una sorta di trionfante volontà d’arrivare allo zero; anzi al sottozero. I soldi, Luchino, li cerca nella misura in cui gli permettono di continuare a disfarsene; in un ricambio folle e, certo, senza vie d’uscita”. Pensa alla tua anima, non pensare al tuo corpo, proclama Ludwig con gli occhi sbarrati e il braccio teso a un attore che costringe a recitare per notti intere, circondati dalla neve incontaminata d’un mondo ribaltato. Eccessi visivi, emozioni gettate in faccia allo spettatore con l’acceleratore schiacciato al massimo, “situazioni estreme, i momenti in cui una tensione abnorme rivela la verità degli esseri umani”, ammise lo stesso Visconti. Sado-masochismo, omosessualità stupri, incesti, pedofilia. Nelle parole di Vieri Razzini, oggi questi film non sarebbero più concepibili, figuriamoci filmabili, eppure sul grande schermo risultano ancora di una bellezza sconvolgente, fino a raggiungere quel vertice contemplativo dove in una Venezia febbricitante e marcescente la musica di Mahler e la lingua polacca che avvolgono il viso perfetto di Björn Andrésen ottengono quasi l’effetto di un film muto di Eisenstein. 

 

Gli ultimi anni furono anche quelli tanto delle incomprensioni con le nuove generazioni quanto dei monumenti retorici – già in vita e ancor più post mortem – che paralizzano e allontano dalla energia pulsante dei dibattiti e della creazione: “Mi dicono che sono decadente” ribatteva Visconti. “Lo dicevano anche di Thomas Mann, sono in buona compagnia”. Si torna così all’appuntamento quotidiano con la notte, preludio dell’ultimo velo nero che si stende sugli occhi di ogni attore e spettatore, la stessa oscurità che fasciava il bacio alla Hayez degli amanti di Senso e ricambiava lo sguardo ironico e disfatto di Aschenbach che nella sua cerca di Tadzio crollava sudato accanto a un pozzo di marmo. Che illuminava coi fari delle macchine e dei tram i cazzotti dei fratelli immigrati all’Idroscalo e le passeggiate di re Ludwig che confida al medico del manicomio che, per lui, la notte è sempre stata un culto maschile. Testori segue Luchino che spegne le luci della sua gran casa, circondato dai fantasmi dei morti che lo fissano dal televisore spento, dagli affetti perduti. I trionfi a Cannes, i party con Warhol, le scenate di gelosia pubbliche e private, le proteste per gli spettacoli censurati. E poi le mani invisibili tese dai progetti mai realizzati, dalla Montagna incantata a soprattutto La Recherche per il cui cast aveva perfino ottenuto un cameo di Greta Garbo e che tra le scene conclusive avrebbe compreso quella del barone di Charlus straziato a letto dai marchettari come Prometeo roso sul Caucaso. Come scrisse Raboni, Visconti aveva deciso “di fare dell’omosessualità, dell’amore omosessuale, del desiderio omosessuale, della gelosia omosessuale, l’unico, formidabile motore che fa girare e accendersi di luci volta a volta esaltanti e sinistre l’immenso planetario della Recherche”. Un vertice che avrebbe compreso e ancora una volta incarnato tutte le passioni e tragedie precedenti, qualunque fosse lo stato sociale, la natura del desiderio e la sua sconfitta. Senso doveva chiudersi con un soldatino piangente che gridava Viva l’Austria! vincitrice sul campo, travolta dalla Storia. Perché tutti tendiamo le mani e quasi nessuno ottiene mai ciò che vuole, eppure mai siamo così belli come quando siamo vulnerabili. “E d’altronde siamo qui per questo” ammise lo stesso Visconti, “per bruciare finché la morte, che è l’ultimo atto della vita, non completi l’opera trasformandoci in cenere”. Per quelle mani serrate al palo di tortura mentre intorno si alzano le fiamme del rogo, Testori guarda invisibile l’amico stendersi a letto, spegnere l’ultima lampada, e mentre l’altro chiude gli occhi e la risacca occupa tutto lo spazio sonoro, gli mormora: “Puoi essere fiero di te. Fiero, triste, scontento e affaticato come si conviene ad ogni vero artista. Poiché la crepa che aveva cominciato ad aprirsi lì, sulla darsena e poi nei saloni di Villa Erba, tra il tuo pasto e la polenta e gli agoni dei pescatori, non s’è allargata invano; non invano è diventata crepaccio, ferita, fuoco, coscienza e dolore”. 

 

Quella incarnata da Visconti è una stagione immensa, dove la cultura italiana si imponeva ancora nel panorama mondiale, attirava collaborazioni internazionali, imponeva discussioni, osava. Provare anche solo a stilare l’elenco di chi gli deve qualcosa fa sorridere: i pugili di Scorsese, i corpi carezzati dalla camera di Guadagnino, le crudeltà di Fassbinder, le sezioni in tedesco dei film di Tarantino, che egli per primo sfruttò nella Notte dei lunghi coltelli che si conclude con un’alba rosata e lo sguardo inquieto di un giovane commilitone in calze a rete… ma ogni traiettoria artistica compiuta – cioè sempre dolorosamente zoppa e magagnata, sempre tradita come Cristo processato, flagellato, ucciso e resuscitato come significato – sta nell’indicarci un orizzonte, non un modello feticistico di imitazione. “Il peso dell’esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola ‘cosa’ che realmente colmi il fotogramma”, dichiarò Visconti. La medesima forza e grido superano ogni cornice preziosa, ci attendono in chiunque avverta il medesimo assenso alla tragedia che tutti ci visita. Visconti, che sulla lapide avrebbe voluto inciso “Adorava Shakespeare, Cechov e Verdi”, non ci aspetta solo in Musil, Genet, nella pira di fuoco spenta dal sangue del Trovatore o nei nazisti sodomiti di Littell, con le loro orge nella Berlino squarciata dalle bombe in cui scorrazzano gli animali dello zoo, ma nei reggiseni slacciati nei diluvi jazz di Cortàzar, nell’epos proletario di Prunetti coi suoi fangosi campetti di calcio a Follonica, così come nelle paternità cyberpunk di Julia Ducournau o negli spettatori abbarbicati alle poltrone dei cinema porno di Luciano Funetta, negli amanti di Cold War che ogni confine varcato perdono qualcosa del loro canto, ma l’amore resta, la musica resta, in tutto ciò che preme sul medesimo nodo oscuro. In chi crea e si esprime con la stessa forza disperata che Puccini raccomandava per la sua Manon, e che Visconti carpì nella sua ultima regia. Gli dèi se ne vanno, restano solo gli oggetti, constatò Proust. Il Principe di Salina muore, e i suoi cani impagliati resistono un paio di generazioni in dimore sempre più spoglie, cornici di quadri sbiaditi, venduti. Non saranno porcellane belghe o arazzi rinascimentali a riesporci al medesimo vento, alla stessa mannaia.
Talvolta, quando riguardo Morte a Venezia e Tadzio si immerge nell’acqua per additare un orizzonte luminoso e irraggiungibile, ho la tentazione di ammutire Mahler e sovrapporre alle immagini sullo schermo il martellio sordo dei Notte senza fine, o le urla degli Ojine o dei Raein. “Tutto il senso della tua vita in quell’oscurità / Vorrei fosse sempre primavera qui, da oggi / Mentre l’albore insorgente della ricerca, come il presente, pretende / Cerca la fame, cerca la sete, cerca l’altro nelle ombre per sporcarsi di lui”. Ad accompagnare lo sguardo bruciante di Arcidiacono/’Ntoni che torna a lavorare per gli sfruttatori mentre le onde si frangono contro una barca nemmeno più della sua famiglia, di Anna Magnani che copre gli occhi della figlia umiliata dai produttori cinematografici, di Alida Valli che urla No fronteggiando alla fine il proprio segreto tradimento, di Burt Lancaster baciato da Claudia Cardinale e che fissa la telecamera, Alain Delon, noi, con inerme sconcerto, di Dirk Bogarde che sorride agonizzante mentre la tintura per capelli si disfa sul viso mascherato di bianco. Sguardi brucianti, senza paese come nei suoi amati Malavoglia “perché il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole”. Siamo tutti tempo che cola, braccia tese, contrasti vissuti senza saperlo, sapendolo. Due mesi fa, anche per scrivere questo pezzo, sono andato al Lido, all’Hotel Des Bains ormai chiuso come l’Overlook stregato di King, e ho alzato lo sguardo alla finestra dove Aschenbach/Bogarde fumava una sigaretta e alzava una mano a salutare un Tadzio ignaro del gesto. Ho salutato di rimando, mi sono tirato su i calzoni, e mi sono addentrato nel mare bianco e azzurro mentre sugli scogli alcuni turisti prendevano il sole. “Tutto ciò per cui avevi vissuto / sembrava sbiadire, spinti a prendere / forzate decisioni per poi ghiacciare una tempesta di emozioni. / Trovare il coraggio di continuare nella monotonia per non marcire dentro, / con la certezza che tutto ciò che siamo / non è stato creato per renderci felici”.

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