Jean-Frédéric Bazille, Ritratto di Pierre-Auguste Renoir (1867)

Ernesto Ragazzoni, il poeta improprio

Cettina Caliò

Un outsider della letteratura. Nei suoi versi si fa beffe di tutti e di se stesso. Chissà cosa avrebbe detto delle smanie sui social

"C’è chi taglia e cuce brache, / chi leoni addestra in gabbia, / chi va in cerca di lumache, / io fo buchi nella sabbia”, scriveva Ernesto Ragazzoni, uomo di fine Ottocento, morto sulla soglia di un tempo complesso, “ove lo sguardo non iscorge rostro / di pruno, e il piè tra i cespi alti si perde”. Outsider della letteratura. “Quanto a me, un umile / fanale io sono, / tremulo, a gas”. Un ragazzo di taverna, ironico e brillante nella conversazione, e guascone nella malinconia. “Ed è come un albor di luna piena / per le colonne d’una cattedrale; / una luce in sordina, ove sua lena / perde ogni tinta, e par quasi d’opale”. E a lui si ritorna spesso, come si fa coi luoghi cari, “… qualcosa come l’abitazione / d’una Bella nel Bosco, od il rifugio / di qualche antico frate un po’ stregone”. 

 

Ad alcuni di noi piace assai, a quelli di noi che sono cresciuti nei cortili, con le vecchine perennemente in lutto nell’abito, ma allegre nel cuore, che nella controra, con quell’odore vago di sole e fiori appassiti, sgranavano il rosario e i piselli, le perle di saggezza e i pettegolezzi, coi vecchietti che si curavano dell’orto sul retro e davano una mano di calce lì dove il tempo scrosta e sbriciola, lì dove bisognerebbe ricordare quanto siamo provvisori, “pria che l’ombra ci sommerga”, e proprio per questo esercitare quella meravigliosa leggerezza di uccello, e non di piuma; a quelli di noi che davvero non capiscono perché, in questo frangente così saputo e agguerrito, non ci si rilassi un attimo. “Non so più / sotto a che latitudine / od in che mar si fosse”. Ci si orizzonti un poco. Si spalanchi una finestra e si faccia un bel respiro a pieni polmoni per riossigenare il pensiero. “Io parlavo di me, di me, di me, e di me: di nasologia e di me. Io drizzavo il mio naso e parlavo di me”. Fosse anche solo per non avere le idee confuse o per averne di proprie, di idee, “laggiù di china in china, quasi a remoti esigli nubi”.

Quand’è successo (riferisco dalla vita recente) che se qualcuno ci taglia la strada in auto e rischia di farci ammazzare e noi lo mandiamo (giustamente) a quel paese, o gli auguriamo di morire moltissimo, in un impeto di sopravvivenza, veniamo presi per fascisti? Quand’è successo che fascista è diventato sinonimo di chi non la pensa come me? “E’ il terribile leone, / ruggibondo e divorier / … Ed allora Dio ne liberi / incontrarlo per la strada!”. Era novarese di provincia, Ragazzoni, e diceva di essere “una fede in cerca di un Dio”, e temeva di essere preso troppo sul serio perché non voleva essere un uomo celebre qualunque. “Una smania prepotente mi dilania / … in me dentro la rintuzzo: / vo in Lapponia tra i lapponi / a ber l’olio di merluzzo!”. Ci teneva a non essere noioso perché tutto si può perdonare, diceva, tranne annoiare la gente. Pare che sul fronte noia, nel senso etimologico di avere in odio, oggi noi siamo tutti maestri. “… nell’afa, accidiose, / illanguidivano l’anime”. Si direbbe che la frustrazione e il pregiudizio ci stiano sfuggendo di mano, “qua e là, tra fronda e fronda”, al punto che abbiamo smesso il confronto, che di solito arricchisce, e ci siamo dati alla cancellazione, “i signori / qui dei fonti e delle grotte”, e poi ci siamo tuffati di testa nell’isteria, avvincente come la sabbia nelle mutande, “tra cielo e mare, in un vapor turchino?”, perché abbiamo la necessità, quasi fosse fame d’aria, di prendercela con qualcuno, un qualcuno qualunque. “L’ora che vibra è un attimo”, e quanto meglio sarebbe, immagino, per la salute e l’allegria del sistema nervoso, semplicemente dividere le persone in due categorie: quelle in gamba e quelle che non lo sono, ovunque ubicate. “Perché c’è sempre, in questo od in quel posto, / da non mancare una coincidenza”.

Lo rileggo, Ragazzoni, in poesie e prose, in un’edizione Einaudi, col prezzo ancora in lire. Perché la poesia è una visione del mondo e consente una prospettiva di lettura del nostro presente. Si sorride amaro fra le pagine. “E qui sepolto il mare e sottomesso / è come un lago al fondo di un cratere. / Il sole non v’esilia che un riflesso”. Era un tipo profetico nella visione, come succede a quelli bravi. “Ora, i tempi a mal volgono. / L’un polo l’altro accusa / di accaparrarsi il ghiaccio, e son ambo inquieti”. Un puro di cuore, disincantato e implacabile. Si fa beffe di tutti, e di se stesso. “Ogni fiore si sente un po’ rosa / ogni fiume si sente un po’ Po”. Nella sua variopinta scrittura emerge quella certa banale pochezza della vita quotidiana, “e disdegno le chiacchiere e le fole. / Se si parlasse meno, quanto il mondo / più felice sarebbe, e più fecondo!”, c’è l’apoteosi delle quisquilie.

Chissà come avrebbe riformulato, lui, quell’insieme di sintomi periferici e di malattie allo stadio terminale tipo la grande scuola dei social, dove l’illusione della fama è tremenda, e i contenuti sono spesso devastanti. “E’ il bel regno degli echi e del riposo; / alla sottil fosforescenza / tutto s’imporpora d’un lume favoloso”. Dove vivono gli influencer – e, ahinoi, quelli che seguono gli influencer, e sono tanti. “O rivi, io son l’oceano / chi pareggiar mi può?”. Pescando a caso nel mucchio, c’è chi offende i capelli spaziali di Samantha Cristoforetti – alla quale si può fare semplicemente chapeau, per tutto quello che lei è – o quella persona tanto bellina, e di certo altamente istruita, quanto e più del gufo Anacleto, che ha sostenuto: “I vecchi (che nel cielo sperano e temono il cielo, per dirla con Claudio Baglioni) non devono fare niente, neanche votare, devono stare in casa fermi e immobili con quelle mani. Sono completamente rincoglioniti, (…) eppure sono lì, vivi e attaccati alla vita”. Ci sarebbero, certo, gli articoli 3 e 48 della nostra Costituzione, ma sono bazzecole. “Disse la tinca al luzzo: / ove ten vai, o misero? / Disse il luzzo alla tinca: / al lago di Braguzzo. / Morale: O tinca! O luzzo! / O lago di Braguzzo!”. Chissà se ha considerato che anche lei un giorno, e tempus fugit, sarà un’anima bianca di calce in controluce, per restare su Baglioni. E allora, come la mettiamo? “L’oche pretendono esser – ahimè! – cigni”. Pare che abbia chiesto scusa, e ce ne rallegriamo. Tuttavia, forse, lei, o chi come lei, dovrebbe prendersi un minuto per riflettere sui massimi sistemi, partendo però da quelli piccolissimi, “nulla / più che un leggero armonizzar di lire”, forse anche noi dovremmo prenderci un minuto, o una vita tutta intera, per riflettere sul perché stiamo deragliando così miseramente. “Così amico, oppure amica… / tieni a mente che i perversi (funghi, è inutile ch’io dica) / son gli sciocchi, i farisei”. 

Ragazzoni, che era un coacervo di luci e ombre, ha sottolineato con sagacia quei dettagli sempre presenti nell’umana e disumana esistenza, “io non vi parlerò di cose strane /… parlerò del davanti e del didietro”, perché è chiaro che c’è della coerenza nell’uomo, in fondo. “Tutto è infin, come da noi / tra le genti fungherecce. / E con unica bilancia / funghi ed uomini io tratto, / e so dirvi in modo esatto / quale o no dà il mal di pancia”. L’uomo che recita in una perenne farsa e del mondo fa una farsa, “son chi son, ma se li squarci / questi, ahimè, li trovi marci”, l’uomo così attento alla forma e così dimentico della sostanza.  

 

“D’esser stato vivo non gl’importa”, questo chiedeva Ragazzoni per il suo epitaffio. Il suo arco temporale è elegante e trasandato, breve e sregolato. Cinquant’anni di perdita di sé. Nasce e muore nello stesso mese, alla sua sorte doveva piacere parecchio il mese di gennaio. “Me ne vado col bavero alzato, / dietro il fumo della sigaretta”. Era cantastorie nell’animo. “Per i profondi cieli, – gli ignoti orizzonti, gli elisi / – tutto quanto ha sorrisi – e tutto quanto ha veli”. Era il poeta delle pagine invisibilissime, ha vissuto molta poesia fuori dalla pagina, conosceva il peso e il valore delle idee e riteneva fosse meglio servirsene per uso interno: “Ognuno lavora come crede. Uno dei lavori più graditi, dei più appassionanti, per me, è… non scrivere. Ci passerei tutta la vita […] Si lavora d’immaginazione, e non è lavoro da tutti”. E’ stato molte cose, tante per uno che lavorava soprattutto nella sua testa e si dava dell’indolente, ed è una fortuna che qualcosa di visibile, che si fa eco dell’invisibile, sia rimasto di lui, perché si tratta di quella buona letteratura che aderisce alla vita. “I tempi sono tristi!... / … Per consolarti, o povera anima mia, ripeti: / il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa / è la somma di quelli fatti sui due cateti”. I libri belli sono quelli che hanno sempre e ancora qualcosa da dire. In questo mondo di gente saputa, il poeta osserva e chiede, oggi si dice simpaticamente: chiedo per un amico/a, un poeta osserva e chiede per gli amici, per i conoscenti, e per se stesso. “La mia poesia è fatta per me, per voi, gli amici”. E quando osserva, fa il giro della visione per avere contezza di ogni faccia e di ogni espressione. “Fecondo, inesorabile / come il dolore umano, / io cullo nei miei vortici, / la perla e l’uragano”. I libri belli resistono alle mode, e tornano utili quando ci si perde di vista, “sorgi, spirito! Prorompi. / Sprizza, rompi / finalmente il tuo letargo”, ed è un gran peccato, smarrirsi, posto che siamo noi a muovere il mondo con le nostre azioni e le nostre parole. “L’economia è fatta di persone che parlano”, così ho sentito poco tempo fa sul bus. Era un uomo brizzolato, dall’aria stanca, commentava il girotondo della vita: “Moriremo! E la Borsa scende. Ci salveremo! E la Borsa sale”, diceva in un tra sé udibile ai vicini di gomito, ripiegando il giornale. A quanto pare, siamo noi la tendenza. “Se ne vedono pel mondo / che son osti, cavadenti, / boja, eccetera…”. Ragazzoni conosceva il gioco dell’annientamento e della parola contro la parola. Ecco, la parola, che è quella cosa capace di sedurre, di ammalare e di guarire, perché tante cose passano attraverso la parola. La parola (meglio se sostenuta dai fatti) che è quella cosa capace di innamorarci e di disamorarci. “Io palpito, / mi gonfio, m’apro in atri / gorghi”.

 

Noi siamo quelli che hanno armato le parole (anche quelli che hanno distrutto l’equilibrio climatico e si stanno affannando alla salvaguardia). Quelli che hanno usato la parola handicappato – portatore di handicap – per offendere il prossimo, e hanno poi avuto bisogno di atterrare su diversamente abile che si presta all’ironia, come sappiamo, quando facciamo gli splendidi dicendo diversamente cretino, diversamente intelligente, diversamente alto… e in effetti, in questo secondo caso, è quasi divertente. “E il brusio / delle nostre parole, volte in eco / d’arco in arco ci vien come la voce / del nume ascoso che ci chiama seco”. Mi pare noto che le parole (come le cose) abbiano un significato, e poi hanno il peso che noi decidiamo di attribuire a esse: la parola coltello ha un significato e un peso. Possiamo usarlo per affettare il pane o tagliare la gola a qualcuno, a prescindere dalla volontà del coltello, che rischia, a quanto pare, di prendersi la colpa delle nostre azioni. “Non avete voi negli occhi / forse, un po’ d’ogni mister?”. E si dice di acqua calda, in fondo. Si puntualizza l’ovvio che, tante volte, pare non sia ovvio affatto. “La prima azione della mia vita fu di impugnare il mio naso a due mani. Mia madre mi vide e mi chiamò un genio; mio padre pianse di gioia e mi donò un trattato di nasologia”. Se oggi un influencer (o il mio vicino di casa) decidesse che DUE significa assassino munito di corna ramificate e fauci blu cobalto, il povero due sarebbe bandito e chiunque lo usasse, accusato di essere una personaccia, o un fascista. “Le parole usate e care / s’involano pure al vento”. Per correttezza apro e chiudo una parentesi sul mio vicino di casa, che di Ragazzoni ha le stringhe sempre slacciate e la giovialità malinconica, e dice robe piuttosto notevoli perfino al mattino presto, robe del tipo: “Sapisti? Nzuddu si risbigghiò mottu…”, “hai saputo? Vincenzino s’è svegliato morto”. Qualcuno ha detto che ci sono più figure retoriche in un giorno di mercato che in una sessione di accademici. Ecco, lui, o chi come lui, è un giorno di mercato, fossi in noi, lo terrei presente, qualora si fosse a corto di influencer. “Signori favorischino! Non stiano a guardare i mal dipinti cartelloni! Favorischino!”.

 

Ragazzoni indaga la vita – e le solitudini sempre ammantate d’altro – coi modi del giullare ma procede per inquietudine. Si muove di pena in pena, con la sua voce, che pare avesse calda e carezzevole. “E lieve lieve / cade la neve / sull’alta Pieve / di Pontassieve / e il tetto breve”. Redattore per quasi vent’anni, è poeta tragicomico della cronaca che, sempre in ogni tempo, tende a essere rumorosa, paradossale e dissonante, “un trito concerto di trilli”. Ci offre, in quest’immobile vampa, il sogno come rimedio alla farsa che ci attanaglia, ma un sogno da svegli che ci consenta di andare oltre, di vedere oltre. “O cogliate la cicoria / od allori, o voi, Dio v’abbia / tutti quanti, in pace, in gloria! / Io fo buchi nella sabbia”.

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