facce dispari

“L'editore è uno zingaro dal fegato grande”. Intervista a Riccardo Cavallero

Francesco Palmieri

Fare l'editore vuol dire avere "una linea editoriale chiara e la capacità di anticipazione, perché si compra un libro che sarà pubblicato un anno e mezzo dopo. È necessario intuire dove sta andando il mondo"

Fra i numerosi, ma non numerosissimi adepti che con inconsapevole premonizione Marsilio Ficino arruolò sotto l’insegna dello “Iocari serio”, c’è l’editore Riccardo Cavallero di cui l’età va precisata – sta per compiere i sessanta – più che altro per registrare i periodi consistenti vissuti all’estero: infanzia libica con la famiglia, tre anni a New York e complessivi dodici a Barcellona. Assunse la guida del Grupo Editorial Random House Mondadori fino al rientro a Segrate da direttore generale Libri Trade e a.d. di Einaudi. Lasciato il gruppo nel 2015, da comandante di portaerei editoriale si è riconvertito al timone di una corvetta tutta sua fondando la Sem (Società Editrice Milanese) assieme alla moglie Teresa Martini e a Mario Rossetti. Imbarcato con loro, the ancient mariner Antonio Riccardi già direttore letterario Mondadori e poeta. Oggi la Sem, che conta nell’azionariato il Gruppo Feltrinelli, pubblica poco più di una trentina di titoli annui e Cavallero dice che continua a divertirsi in tutta serietà.

 

Senza la retorica del “piccolo è bello”?

Senza. Per restare nella metafora marinara, una portaerei nelle calette non entra, io con la piccola nave sì. Non possiamo competere con i grandi editori ma ci togliamo qualche soddisfazione. Per esempio acquisimmo i diritti di due libri di Richard Osman: una volta esploso come fenomeno in Gran Bretagna, in Italia se lo sono conteso ma ha voluto restare con noi. Ci sentiamo corsari e contenti.

 

L’editore è uno che s’appassiona più ai libri o ai numeri che fanno?

Non deve confondere la casa editrice con la sua biblioteca personale, altrimenti non è una professione ma un hobby: se lo gode chi è ricco di famiglia.

 

Legge quello che pubblica?

Tutto. È fra i vantaggi di essere piccoli. Ora sono su quattro manoscritti che attendono risposta. Agosto per questo è un mese stupendo.

 

Qual è la bussola?

Una linea editoriale chiara e la capacità di anticipazione, perché si compra un libro che sarà pubblicato un anno e mezzo dopo. È necessario intuire dove sta andando il mondo. Per farlo devi vivere tanto, viaggiare, tenere contatti. Guai a stare chiusi in ufficio credendo basti Internet. Non avrei potuto vendere un libro in Colombia restando a Barcellona, e quando andavo in Colombia capivo che García Márquez prima di essere scrittore era cronista. L’editore è uno che partecipa alla vita, va alle feste e ne porta i segni sul fegato. Deve essere uno zingaro.

  

A proposito di fegato, se oggi le proponessero di tradurre un libro come ‘The Satanic Verses’ lo farebbe?

Mondadori lo fece. Io lo farei. Nell’editoria esistono da sempre libri scomodi che tuttavia si pubblicano.

 

Conosce Salman Rushdie?

Simpaticissimo, gaudente, capace di scherzare su tutto. Quando mi lamentavo con mia moglie, a Barcellona, perché di notte continuavo a lavorare per il Sud America, lei mi ricordava che avevo il privilegio di imparare sempre da chi incontravo. Ho avuto la fortuna di conoscere García Márquez, Lobo Antunes. Di avere, assieme a un gruppo di librai, Pamuk come guida a Istanbul due settimane prima che vincesse il Nobel. O David Leavitt: lo stiamo ripubblicando ritradotto da Fabio Cremonesi, che per questo ha vinto il Premio Capalbio.

 

Ci sono autori che si è pentito di avere pubblicato?

Certi ‘fuori collana’ neanche li consideravo libri. Mi sono pentito di quei titoli che ero convinto fossero molto buoni, poi per imponderabili ragioni non funzionavano. Riguardo agli autori è capitato che di alcuni mi piacessero le opere e dopo averli conosciuti mi dicessi: ‘Che brutta persona’.

 

Cosa pensa delle polemiche sui premi letterari?

La vera polemica sarebbe non parteciparvi. Non può denigrare lo Strega chi non entra in cinquina, ma chi non ci va.

  

Come evolve il pubblico italiano?

Solo in un paese con un tasso di lettura così basso si fa ancora distinzione con la letteratura di genere, malgrado basti Stephen King a smentire. Però l’editoria sta abbastanza bene e la pandemia non le ha nociuto. Ci sono editori indipendenti con grossi fatturati come Sellerio, La nave di Teseo, E/O. La vera difficoltà è trovare qualcosa di nuovo. C’è un effetto X Factor: tutti cercano di copiare qualcuno.

  

Però i social non hanno fatto bene alla scrittura.

Non voglio denigrarli. La lingua cambia perché tutto è più accelerato e lo stile consegue. Certo la società è piuttosto mediocre, gira tanta fuffa ma ci sono anche più opportunità.

   

Su cosa dovrebbero investire gli editori?

Sulla distribuzione. Quando in Mondadori facemmo l’accordo con Amazon, dissi che era come coricarsi con un vampiro. Tutto bene fino alla notte in cui non si sveglia con sete di sangue. Durante il Covid alcune librerie si sono attrezzate per portare i libri a domicilio. Se si riuscirà a recapitare un titolo in 48 ore sarà un cambiamento importante.

  

Quali titoli andranno prossimamente?

C’è voglia di evasione. Non se ne può più del “ricordati che devi morire”. Quando dico evasione non intendo frivolezza: ‘Solar’ di Ian McEwan esprime la levità cui mi riferisco.

 

Quali prospettive ha il digitale?

Quando abbiamo offerto a chi acquistava un libro anche di scaricarlo gratis in eBook, lo hanno fatto in pochissimi. A differenza degli Stati Uniti, resta una spaccatura tra lettore digitale e cartaceo.

 

Dopo le vacanze cosa farà?

M’impegnerò per la ripresa dei ‘Giovedì di Sem’, i nostri incontri sospesi con la pandemia.

 

Guai all’editore chiuso in ufficio?

Sì, il lavoro vero comincia sempre il giorno dopo la Fiera di Francoforte.

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