facce dispari

“Una civiltà sta finendo e non ce ne siamo accorti”. Intervista a Igor Sibaldi

Francesco Palmieri

"La civiltà occidentale formatasi da metà Settecento, che andava dall’Alaska all’Australia, tra qualche mese non ci sarà più. Le civiltà sono come grossi animali. Nascono e muoiono"

Informa Wikipedia che Igor Sibaldi è “uno scrittore, slavista, drammaturgo e traduttore italiano”. Lui sul suo sito si definisce “filologo e narratore”. “Narro argomenti di teologia, mitologia, psicologia, filosofia, storia della letteratura, Qabbalah”. Ha tenuto migliaia di conferenze, insegna la “tecnica dei desideri”, spazia da una disciplina all’altra per suggerire percorsi. Milanese di madre russa, fino al ’96 di professione faceva lo slavista con una mole impressionante di traduzioni fra cui ‘Guerra e pace’ e ‘Tutti i racconti’ di Lev Tolstoj per i Meridiani Mondadori.

 

Sibaldi, chi è lei?

Come si fa a voler essere qualcosa di preciso quando possiamo essere tutto? Il verbo essere è antipatico, ti incastra. Meglio evitarlo fino alla tarda vecchiaia. Usiamolo dopo i centovent’anni… Per cercare di comprendere la situazione in cui siamo, una disciplina non basta né una sola lingua. Sei comunque parte di un ingranaggio che include tantissimo e più studi più senti il bisogno di scoprire per acquisire una visione d’insieme. Ciò procura anche l’enorme piacere di sentirti dappertutto appena arrivato, come chi ha di fronte tanti pacchi da aprire.

  

La sua metà russa come vive questo momento?

Per prima cosa un ricordo. Da bambino, negli anni ‘60, mi portavano spesso in Unione Sovietica. C’era la Cortina di ferro e niente sapevamo gli uni degli altri, ma con i coetanei russi m’intendevo perfettamente. Poi verso i 12, 13 anni cominciammo a dire “noi” e “voi”: loro stavano imparando a essere russi e io italiano. Sentire quella scissura fu una grossa tristezza.

  

Ora cosa succede?

Nessuno ne parla ancora con chiarezza, ma la civiltà occidentale formatasi da metà Settecento, che andava dall’Alaska all’Australia, tra qualche mese non ci sarà più. Le civiltà sono come grossi animali. Nascono e muoiono. Certe volte vivono a lungo, come quella latina, altre sono come l’attuale che non ha raggiunto i tre secoli. Sorta in Europa, le si aggiunsero gli Stati Uniti e la Russia di Caterina II. Ora sta finendo.

  

E la Russia?

I russi torneranno a essere quella gente strana là in fondo, un po’ bestiale, e gli europei si sentiranno rassicurati regredendo a com’era prima. La Russia d’altra parte è uscita da un secolo disastrato e non ha avuto tempo di formarsi nuovi valori. Quella post-sovietica è stata una cultura incerta, influenzabile dall’Occidente da cui ha preso il peggio senza avere molto da dirgli in cambio.

  

Conseguenze?

Tra dieci anni un italiano medio non saprà niente di un russo. Ma gli occidentali perseguiranno nel loro peggior difetto: credere che sono il mondo. È un’eredità ottocentesca. Quando Darwin parlava dell’evoluzione della specie umana pensava agli inglesi.

  

L’opinione pubblica ne è conscia?

La maggior parte no, ma tutti percepiscono in qualche modo questa fine, anche se non sanno perché sono più agitati, perché sorpassano a destra… È come stare su un terreno che si crepa, un terremoto culturale. Per chi se ne rende conto la situazione può diventare interessante, altrimenti si va verso una siccità interiore. Quando una civiltà finisce anzitempo per la mente individuale è una catastrofe: ci si attacca a piccole certezze purché comprensibili.

  

Come reagire a livello individuale?

Dubitando e desiderando. Bisogna specializzarsi nella comprensione di sé. In questo periodo è difficile essere un individuo. Un ‘io’ dà fastidio. Il mondo vuole dei ‘noi’. Anche dall’altra parte: un ‘io’ russo non fa guerra a un ‘io’ ucraino. Un ‘noi’ russo sì. Oggi il ‘noi’ sta invadendo l’interiorità di ciascuno. Se pensi a una cosa che ti piace, spesso non pensi a cosa ti piace davvero, ma a cosa puoi dire ti piaccia senza essere riprovato dagli altri.

  

Il tempo individuale è un rifugio?

Se il territorio interiore è abbondante. Altrimenti è come una linea della metropolitana, che si percorre frettolosamente per scenderne. Il ‘noi’ detesta il tempo individuale, l’esempio lampante fu la Russia staliniana: le case erano brutte, spesso ridotte a una stanza in un appartamento. Quella dove si uccise Majakovskij era un bugigattolo. Ma i teatri e i parchi dove si andava a ballare e a sentire conferenze erano meravigliosi. Bisognava che il tempo fosse tutto collettivo e la vita personale fosse insignificante. Oggi viviamo anche il rischio che il progresso tecnologico soffochi la libertà individuale. Il ’68 e Pasolini sono esistiti ai tempi delle macchine da scrivere. In quelli dello smartphone è diverso. La tecnologia è un gigantesco supermarket la cui abbondanza rischia di travolgere creatività e desideri, perché sembra offrire persino più di quanto tu possa volere.

  

Chi ne scampa?

O fuggi con allegri compagni nella Foresta di Sherwood o fai come i monaci medievali. Oppure segui l’esempio degli avventurieri culturali di fine Settecento che potevano servire il re di Prussia, viaggiare in Oriente a trascrivere ‘Le mille e una notte’ e ripartire per la corte del duca di Mantova. Un camaleontismo nel senso migliore.

   

Ma la pandemia ha ristretto le frontiere. Non solo geografiche.

La polarizzazione sul Covid ci ha allenati a considerare nemico un pensiero diverso. In tutti i campi c’è un A contro un B. E in Italia sono scomparsi anche i partiti. Quand’ero ragazzo erano tanti, ognuno con la sua immagine del mondo.

  

Cosa teme di più?

La figuraccia con le generazioni future. Con gli strumenti a nostra disposizione non avremmo scuse.

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