Carlo Emilio Gadda (foto Olycom)

Carlo Emilio Gadda e i tutti i suoi devoti

Annamaria Guadagni

I giovani che hanno sostenuto l’Ingegnere fino alla morte. A cominciare da Leone Piccioni. Lo rivela un epistolario

Nel 1950, a Firenze, Leone Piccioni vide Gadda per la prima volta e restò folgorato. Stava accompagnando il suo maestro, il critico Giuseppe De Robertis, che spesso passeggiava verso le Cascine in compagnia di qualche allievo, quando sul Lungarno apparve l’Ingegnere ossequioso e complimentoso, tutto inchini e riverenze “anche per l’incontro di noi ragazzi sconosciuti”. Annoterà Piccioni fissando l’attimo e la scintilla che si accese, legandolo allo scrittore geniale e all’uomo scombinato che convivevano burrascosamente nella stessa persona. Presto, e anche grazie alle attenzioni di quel giovane letterato, Gadda, che allora aveva già cinquantasette anni, sarebbe sceso a Roma e avrebbe finalmente (per lui, spaventosamente) conosciuto la popolarità che meritava.

Intendiamoci, l’Ingegnere era già Gadda, aveva abbandonato la professione per darsi alla letteratura nel 1940 e si era trasferito a Firenze che allora, con le sue importanti riviste e i suoi caffè, ancora scintillava di fascino letterario. Nel 1934 aveva vinto il Bagutta con la raccolta di racconti “Il castello di Udine” e nel ’44 Le Monnier gli aveva pubblicato “L’Adalgisa”, feroce ritratto della borghesia lombarda. Era riconosciuto nella sua sconcertante grandezza da una cerchia importante ma ristretta di palati fini, tra i quali Montale, Gianfranco Contini, Carlo Bo e, appunto, De Robertis. Per gli altri restava “un eccentrico (…) arrivato tardi alla letteratura” o un “umorista molto faticoso” e “cincischiato”, come avrebbe poi rilevato Arbasino nel suo “L’Ingegnere in blu”.

 

Gadda pareva “un bischero di genio”, così aveva tagliato corto Ottone Rosai nel suo crudele acume fiorentino, dopo aver osservato l’Ingegnere al Caffè delle Giubbe rosse, dove compariva quasi tutti i giorni in compagnia di Montale o di Alessandro Bonsanti, il direttore di “Letteratura”, la rivista sulla quale erano usciti a puntate due capolavori del Novecento: la “Cognizione del dolore” e parte della prima versione del “Pasticciaccio”. Il giovane Piccioni, che arrivava a Gadda attraverso De Robertis e subito se ne innamorava, nel 1950 era invece un bel ragazzo di venticinque anni lanciato verso il successo. Figlio di Attilio Piccioni, ministro di Grazia e Giustizia e delfino di Alcide De Gasperi, Leone si era laureato a Roma con Giuseppe Ungaretti, era giornalista professionista dal 1947, lavorava alla radio ed era responsabile della terza pagina del Popolo.  Quell’anno, quando Gadda non aveva ancora attorno a sé la devozione dei futuri “nipotini” immortalati da Arbasino, Piccioni scriveva il suo primo articolo su di lui sedotto dalla verità stupefacente di una scrittura nata dal “tumultuoso disordine di una macchina ad altissimo potenziale” e dall’“ira distruttrice ma persuasiva di un vulcano in eruzione”, ovvero le strabilianti energie rinchiuse nel guscio di una persona timida e inerme, “riguardosa fino allo scrupolo”.

A illuminare quel tempo e il rapporto tra il giovane critico, fresco di studi, e lo scrittore attempato e troppo moderno per quelli della sua età, ma che avrebbe poi raccolto intorno a sé la venerazione dei più giovani – i ragazzi degli anni Cinquanta – è ora un carteggio tra i due. Curato da Silvia Zoppi Garampi e con prefazione di Emanuele Trevi, è uscito da Succedeoggi Libri con il titolo “Col nuovo sole ti disturberò”. Il volume contiene le lettere che Gadda e Piccioni si scambiarono, la trascrizione di alcune interviste all’Ingegnere e scritti critici poco conosciuti o difficilmente reperibili. Ecco allora Gadda grato al giovane Leone dell’attenzione che gli riserva perché con il suo primo articolo gli ha dato “la consolante impressione di non essere ‘solo’ presso le sue miserie”. Poi lo rimprovera dolcemente di una certa  “scarsa severità” verso il suo lavoro e la sua persona “non esente da demeriti”: un minimizzarsi che ora, al tempo della mitomania diffusa, tocca veramente il cuore. E, diavolo di un Ingegnere, fanno tenerezza l’uso logico di segni matematici come + o = a complemento della punteggiatura; e le abbreviazioni da corrispondenza commerciale tipo aff.mo suo. Quando Piccioni invita Gadda a  scrivere sul Popolo, lui – laico e liberale accolto sul quotidiano della Dc – ringrazia in punta di penna: “Non deve temere che io possa rappresentare la ‘pecora nera’ della Sua terza pagina. Conosco e apprezzo i limiti entro cui deve agire la collaborazione”.

 

Piccioni s’innamorò, mi racconta Silvia Zoppi Garampi, perché “capì subito che Gadda era uno scrittore nuovissimo ma pienamente dentro la tradizione letteraria. Scriveva prevalentemente racconti, pubblicava romanzi a puntate e con una lingua che rivoluzionava lo sguardo sulla realtà: sapeva starci dentro e raccontarla in movimento, nel suo farsi e da differenti punti di vista. Quando poi conobbe l’uomo, Leone capì che era dotato di una sensibilità particolare, era una rarità”.

E’ interessante capire perché il giovane critico non ebbe mai dubbi nel collocare Gadda nella tradizione letteraria italiana e accantonò subito lo sperimentalismo, che pure poteva essere collegato all’inventiva linguistica o al periodare “a cavaturacciolo”, come diceva l’autore della sua scrittura. “In Gadda – dice Silvia Zoppi – non c’è nessuna intenzione sperimentale. Il suo esercizio sulla lingua, per renderla innovativa, non è premeditato, è necessario. Sperimentali erano i futuristi o più tardi la neoavanguardia, che teorizzavano un’intenzione (…). Mentre Ungaretti, con cui Leone aveva studiato a Roma, non lo era: scrivere nella forma poetica di ‘Porto sepolto’, praticamente senza versi, per lui era naturale, necessario e basta. In Gadda, Piccioni colse uno scontro violentissimo con la realtà, ma così intriso di letteratura che non poteva disfarsene. La sua carica eversiva, che nella quotidianità produceva reazioni tragicomiche, sulla pagina generava gli exploit che sono lui, la sua verità letteraria priva di artifici”.

E qui veniamo alla convivenza, buffa e tragica, tra l’uomo e lo scrittore. Il giovane Piccioni si prende cura di entrambi. Nell’estate del ’50, a Forte dei Marmi, alla corte del “Critico dei critici”, cioè di De Robertis, “confabulando senza né capo né coda” seduti al Caffè Roma sotto i platani, Gadda conosce “l’angelico Angioletti” e gli confida le sue pene e la sua miseria economica. Giovanni Battista Angioletti era il capo della redazione letteraria del Giornale radio, dove Piccioni era redattore: due mesi dopo Gadda è in Rai come consulente a contratto semestrale e così si trasferisce a Roma. Sarà assunto l’anno successivo come praticante giornalista addetto alla segreteria dei Servizi culturali parlati e si dimetterà nel ’55 per terminare l’ultima edizione del “Pasticciaccio”. Intanto, a cinquantotto anni, era diventato collega di due ragazzi: Leone Piccioni e il suo ex compagno di liceo Giulio Cattaneo che, poco prima della morte di Gadda e con il suo beneplacito, pubblicherà “Il gran lombardo”. Nel 1952 l’Ingegnere scrive divertito all’“ex-biondo” Piero Bigongiari: “La mia collaborazione al ‘Giovedì gnocchi’ la devo a Leon Piccioni, che col solito generoso impeto mi invitò pressantemente, mi mandò un espresso a Parigi, a cui non seppi dire di no come al solito”. 

 

Goffredo Parise ha raccontato, e scritto in morte di Gadda, di avergli spedito per scherzo una lettera firmata Luigi Longo. Gli si chiedeva di votare comunista e l’Ingegnere, angosciatissimo, non sapeva darsi ragione di quell’attenzione per lui da parte del segretario del Pci. Si consultò con Parise al quale disse: “In ogni modo ti scongiuro: non una parola con Piccioni”.  Leone si spese per sostenerlo nei premi, perfino per fargli rinnovare il passaporto, dato che non aveva più documenti validi. La loro corrispondenza è affettuosa, Gadda sommerge Osanna – la moglie di Piccioni – di omaggi floreali sempre più vistosi. E’ di casa e osserva con lo stupore stampato in faccia la piccola Gloria, allora bambina ye-ye, che imita Celentano. 

Cresciuto alla scuola di De Robertis, il giovane critico si era nutrito della lezione di Croce sull’irrilevanza della persona dell’autore rispetto all’opera, sull’inutilità di conoscere gli scrittori nella loro dimensione privata. Ma poi, come altri studiosi della sua generazione, aveva scoperto che, “anche per i classici,  l’attenta lettura e il riscontro su diari, epistolari, scritti minori” dava “frutti preziosi nel successivo rapporto critico al testo”. Quando entrò in confidenza con Gadda, “uomo particolarissimo”, “un personaggio”, si rese conto che conoscerlo aveva integrato la sua percezione del testo. Ed eccolo allora scoprire  una prosa in cui “lo slancio lirico”, “il ritegno ironico”, la furia e la polemica appartengono allo stesso fluire  del “sentire drammatico” di una persona  con umori e sentimenti che non si susseguono, ma si accavallano, si sovrappongono e si incastrano in quella  “mutevole fissità” che è alla base del suo “superbo modo” di interpretare la realtà. 

Silvia Zoppi mi spiega che Piccioni era nato filologo, lavorando su Petrarca e Leopardi, ma poi si era avvicinato a Carlo Bo, che era legato alla critica francese più attenta all’importanza della biografia nello studio degli autori. “Il testo per lui rimase sempre il punto di partenza, ma leggendo i contemporanei e lavorando alla radio, dove incontrava, oltre a Gadda, Pavese, Pasolini, Vittorini, Bilenchi, Cassola, divenne naturale, quasi inevitabile, stabilire connessioni tra l’opera e la conoscenza dell’autore. Leone entrò in amicizia e si prese cura di molti scrittori, anche se poi gli capitò di stroncare libri di autori che conosceva e che aveva apprezzato in precedenza. Quella era una piccola repubblica delle lettere dove non c’erano solo invidie, gelosie, rancori; c’era anche molta solidarietà. Piccioni non ha mai avuto pregiudizi ideologici: accolse Gadda, aiutò Domenico Rea ad avere un posto da bibliotecario per mantenersi, sostenne Anna Maria Ortese in miseria per farle avere la Bacchelli…”

 

Emanuele Trevi, nella sua prefazione,  colloca questo volume nella costellazione dei testi base per chi voglia entrare nella fenomenologia gaddiana: come “La disarmonia prestabilita” di Gian Carlo Roscioni (Einaudi, 1969), “Il gran lombardo” di Giulio Cattaneo (Garzanti, 1973), “Quarant’anni di amicizia” di Gianfranco Contini (Einaudi, 1989) e “L’ingegnere in blu” di Alberto Arbasino (Adelphi, 2008). Mi piace aggiungere uno straordinario, e da tutti molto citato, documento visivo: l’intervista a Gadda andata in onda nel 1972 e realizzata, per “Sulla scena della vita” di Rai 2, da Ludovica Ripa di Meana e Giancarlo Roscioni. Se ne trovano ancora molti frammenti in rete e l’integrale di un’ora e mezza nelle Teche Rai. 

Gadda, che aveva smesso di scrivere dal 1957 –  dopo il successo per lui inquietantissimo del “Pasticciaccio” –  diffidava profondamente delle donne. E come non capirlo visto che il rapporto con la madre gli aveva devastato la vita? Così apparve singolare che a una richiesta d’intervista della signora Meana, come la chiamava lui, avesse detto subito sì. Talmente strano che in Rai non ci credevano e Ludovica faticò a farsi approvare il progetto, che alla fine si fece: “Per oltre un mese, siamo andati tutti i giorni nella casa romana di via Blumenstihl, nel soggiorno-camera da pranzo di Gadda, che alternava momenti di lucidità e smemoratezza. La troupe dimostrò una pazienza mirabile: eravamo davanti a qualcosa di talmente grande che tutti si dettero sempre disponibili senza fiatare”, ricorda Ripa di Meana. Lei si era procurata le foto di famiglia e andò a intervistare la sorella Clara Ambrosi e poi Montale, che conosceva Gadda dagli anni Trenta. “Siamo stati a girare nella casa de ‘La cognizione del dolore’. Gadda s’infurentì parlando del padre, pianse per la morte del fratello caduto in guerra, disse che il pensiero di sua madre gli polverizzava la memoria. Era un mistero vivente, qualcosa di assoluto: non c’era che inchinarsi, lo ascoltavamo in silenzio”.

Scrittrice, drammaturga e poetessa, Ludovica aveva lavorato in casa editrice, come redattrice letteraria,  prima con Bassani e poi con Vittorini; ma – come dice sempre a tutti – era autodidatta per aver abbandonato la scuola in quinta ginnasio. Questo l’aveva resa “impregiudicata”, secondo la definizione di Gianfranco Contini, con il quale Ripa di Meana ha poi scritto “Diligenza e voluttà”, che ora si può leggere nell’edizione Garzanti. L’impregiudicata è ancora senza colpa: un po’ come dire genuina, innocente. E lei pensa sia stata proprio questa percezione a rassicurare a Gadda, che ammise la signora Meana nella cerchia degli amici devoti. Quelli che negli ultimi giorni della sua vita frequentavano l’appartamento di via Blumenstihl per tenergli compagnia e leggere per lui sempre più stanco, iroso e smemorato, soprattutto pagine dei Promessi Sposi.

Ripa di Meana e Roscioni erano con Gadda quando morì. Insieme alla fedele governante Giuseppina, che lo chiamava “’a criatura”, Ludovica lo lavò, lo vestì, gli fece il nodo alla cravatta. Di quei momenti resta un diario minimo, essenziale, tremendo: “La morte di Gadda” (nottetempo, 2013). Ludovica lo ha pubblicato quando, scomparso Roscioni, si è resa conto d’essere l’ultima testimone del trapasso del Gran Lombardo che, nei suoi ultimi giorni, le diceva spesso: “Grazie, signora Meana, grazie, ma non si disturbi”.