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Di chi è davvero Fëdor Dostoevskij e cosa c'entra con la Russia di oggi

Marco Archetti

Non confondetelo con Putin: lui appartiene all’umanità. Illecite altre appropriazioni. Una risposta a Oscar Giannino

Ma Dostoevskij oggi starebbe con Putin? E noi possiamo ancora dialogare con la grande cultura russa senza confonderla con il nuovo zar? Ai dubbi espressi lunedì scorso sul Foglio da Oscar Giannino risponde oggi Marco Archetti.


 

“Turgenev ha detto che dobbiamo strisciare davanti ai tedeschi, che c’è solo una strada inevitabile, cioé la civilizzazione, e che tutti i tentativi di russismo sono una porcheria e una sciocchezza. Ha detto che sta scrivendo un lungo articolo sui russofili e sugli slavofili. Gli ho consigliato di farsi arrivare un telescopio da Parigi. «Per cosa?» mi ha chiesto. «Da qui è lontano. Puntatelo sulla Russia e osservatela, altrimenti è difficile che vediate qualcosa.” Fëdor Dostoevskij la riportava così, in una lettera del 16 agosto 1867 indirizzata all’amico Majkov, la sua visita a Turgenev. “Non mi piace il suo abbraccio farsesco-aristocratico,” stronfiava, “e soprattutto mi ha irritato il suo libro Fumo. Lui stesso mi ha detto che il punto nodale è nella frase: «Se la Russia scomparisse, non ci sarebbe alcuna perdita né turbamento nell’umanità».”

Sacrilegio! Risposta fin troppo secca alla domanda che, trent’anni prima, già Pëtr Čaadaev si era posto nelle “Lettere filosofiche”, interrogandosi su come la Russia avesse contribuito alla civiltà e adombrando l’ipotesi di un’offerta tragicamente univoca: grandi esempi da non seguire - e giusto per smentirsi, il periodico su cui la lettera era pubblicata venne chiuso all’istante, il direttore deportato, Čaadaev dichiarato pazzo suonato, ma in realtà le sue tesi verranno molto discusse nei salotti culturali, contribuendo a radicalizzare slavofili e occidentalisti. Parole insostenibili per uno come Dostoevskij, che nelle pagine precedenti al paragrafo turgeneviano s’era abbandonato alla maldicenza prima contro i tedeschi (“mi hanno rovinato i nervi, e così anche le nostre classi superiori e la loro fede nell’Europa e nella civilizzazione”), poi contro “quello stronzo di Berezowski” (emigrante polacco attentatore dello zar), infine contro gli avvocati parigini che lo avevano sostenuto al grido di “Viva la Polonia!” E giù invettive, al galoppo per una steppa intera di pagine, sui russi che vivono in Germania e ne celebrano la civiltà in contrapposizione alla barbarie russa. Pagine isolate? Per nulla. Basta leggere l’epistolario o “Diario di uno scrittore” per trovare melodiosi osanna all’anima russa e alla sua eccezionalità, rispetto al tentativo di uniformare tutto e tutti, nazionalità comprese, perpetrato dai vanesi confomisti che Dostoesvkij, facendo smorfie con la bocca, chiamava occidentalisti. Innegabile anche la matrice ideologica dei suoi ultimi due romanzi, che però, guardacaso, sono anche i vertici della sua straordinaria produzione letteraria: questo perché il Dostoevskij scrittore non era il braccio armato del Dostoevskij uomo del suo tempo, ma restava sempre uno scrittore, vale a dire un uomo di ogni tempo, un io che non è mai un sé.

La slavofilia di Dostoevskij ha assunto, negli anni, diverse forme: fu prima reazionaria, poi sentimentale ed ecumenico-populista, ma sempre figlia naturale di una cultura in cui epistemologia e razionalismo erano concepiti più come limite che come principio di un pensiero, in realtà, più incline alla profezia, al vaticinio, alla visione. Dostoevskij era imbevuto di populismo mistico, sentimentalismo e idealismo sociale, e gli atei, il progresso e le forze empie dell’occidente erano il Nemico. Ne conseguirebbe che l’amico di Giannino abbia ragione su tutto: che fare, dunque, con le macerie del nostro torto di lettura parziale? Evitare, intanto, di confondere Dostoesvkij con Putin, ma soprattutto evitare di confondere Putin con Dostoevskij. Che significa, da un lato vietarsi di amare Dostoevskij d’amor devozionale, da sacerdoti di un culto a priori, che è sempre il minimo sindacale dell’intelletto e porta al candeggio, a quell’amore fesso da benintenzionati che vuol solo correggere, emendare, incollare l’amato alle proprie aspettative; dall’altro vietarsi di amare Dostoesvkji d’amor putiniano, ossia servendosene, presumendogli opinioni e infiascandolo nell’attualità con l’imbuto di un’altra semplificazione.

Perché per fortuna stiamo parlando di letteratura, cioé di un luogo sacro: il luogo d’incontro tra un individuo e un altro individuo nella loro individualità più estrema, per un totale di due individui che non rinunciano a esserlo e si moltiplicano l’uno nell’altro proprio per questo. Ecco la lezione “politica” del romanzo: né statue da abbattere, né statue da innalzare. Ma pagine da leggere. Perchè Dostoevskij appartiene all’umanità e l’umanità appartiene a Dostoevskij. Altre appropriazioni - temo - sono tutte illecite.

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