Ma Dostoevskij oggi starebbe con Putin?
Cosa si può fare per dialogare, nonostante il presidente, con la grande anima russa?
Direttore e amici tutti del Foglio, mi rivolgo a voi e in particolare a chi di voi è patito di letteratura e cultura russa. Un mio amico da lungo tempo, moscovita e appassionato di italianistica – en passant: che orrore il veto agli italianisti russi di partecipare alla selezione dello Strega in quanto russi, ho le mie tenaci idee anti putiniane ma non sopporto le sanzioni “per passaporto” a chi niente ha a che fare col regime, a cominciare da uomini di cultura e dello sport – quel mio amico mi ha messo in crisi nera. Per questo ho bisogno di una vostra mano. Perché il tema è sconsideratamente ampio: l’anima e la cultura russa, a fronte del pregiudizio occidentale. Per decenni ho approfittato del mio amico per farmi guidare nei meandri dei nuovi autori russi, dopo che in gioventù sono stato uno di quelli sfottuti dall’ultimo libro di Paolo Nori, quelli cioè che chiedevano in giro “ma tu hai letto i russi?”. Sì, ne ho pareti intere, ma non sono un accademico né uno specialista.
E, naturalmente, come molti avevo cominciato delirantemente ubriacandomi di Fëdor Dostoevskij, tutto e per intero, e poi Tolstoj, Turgenev, Lermontov, Gogol’ e via via da Babel’ a Bulgakov in avanti, fino ai dissidenti e ai racconti della Kolyma, la Achmatova e Brodskij, Platonov e il per me immenso Dovlatov.
Ma poiché con il mio amico abbiamo parlato innumerevoli volte di Dostoevskij e dell’evoluzione del suo pensiero nelle sue opere, è esattamente su questo che il mio amico mi ha tirato un ceffone. Anche chi non l’ha letto che poco e male, immagino ricordi che del giovanile empito di ammiratore delle teorie di Fourier che lo farà scambiare dalla polizia segreta dello zar per pericoloso rivoluzionario, arrestato e condannato a morte, sentenza poi mutata in lavori forzati e servizio militare coatto nella lontanissima Semipalatinsk in uno strazio umano durato 10 anni, resterà ben poco nelle sue opere culmine, I demoni terminato a fine 1871, e I fratelli Karamazov completato poco prima della morte 10 anni dopo.
Direte che la prendo lunga. Non troppo. Ho discusso accesamente per corrispondenza negli anni col mio amico, rispetto alla sua interpretazione molto “politica” dei capolavori del grande russo. Il mio amico è nato negli anni Cinquanta, dunque di formazione giovanile marxista, non è nostalgico dell’Urss né ammiratore o sostenitore di Putin. E’ uno scettico e disincantato amante della cultura russa. E per anni mi ha spiegato che a noi occidentali piaceva da morire Dostoevskij perché lo dissezionavamo usando psicologia e psicanalisi, mentre ai russi dei suoi anni e di sempre parlava tutt’altra lingua. I demoni e tutti i personaggi del romanzo erano un attacco all’arma bianca ai rivoluzionari occidentalisti di fine Ottocento: Stavrogin era l’intellettualismo indifferente allo spirito cioè Bakunin, Verchovenskij era la caricatura di Necaev cialtrone umano e non capo rivoluzionario, lo scrittore Karmazinov messo in berlina esprimeva il disprezzo dell’autore verso l’occidentalismo di Turgenev, estraneo allo spirito dell’eccezionalismo russo e slavo, cioè al problema dello spirito e dell’anima russa che in nessun modo può essere ridotto alle categorie occidentali. E la stessa lettura non psicanalitica andava data ai Fratelli Karamazov: rappresentazione dell’impossibilità di ogni ordine sociale a cominciare dall’autodistruzione della famiglia dovuta all’ateismo materialista, vedi lo spregevole personaggio del padre dei fratelli Ivan, Mitja e Aleša e del figlio bastardo Smerdjakov, deforme epilettico plagiato dall’intelligenza di Ivan, occidentalista e dunque arido ma brillante, che dichiara a raffica di odiare la Russia e amare la Francia. L’essenza antioccidentalista dei Karamazov sta di conseguenza non nella leggenda del Grande inquisitore che tanto ci affascina, ma nella confessione finale ad Aleša dello starec Zosima, che unisce l’amore per Cristo e per la Russia in un’unica sintesi che è la summa dell’irriducibilità all’Occidente.
Ed è qui che mi è arrivata la fucilata. “Caro amico, tu hai letto e straletto Dostoevskij ma continui come il più degli occidentali a non capirlo. Putin vi ha fatto ripartire in quarta col pregiudizio antirusso – ha aggiunto – e non parlo dell’invasione, parlo dell’incomprensione di cosa siamo davvero e del perché per milioni di russi Putin parla una lingua che rimanda a radici profonde. In Vita e destino di Grossman che ti piace tanto, i personaggi affrontano lo stalinismo con lo stesso spirito di accorto affidarsi al destino di quella radice che voi non vedete mai, perché pensate sia abulica passività animale”. E poi la stoccata finale. “Rileggiti il discorso di Dostoevskij nella sua ultima apparizione pubblica, di fronte a migliaia di persone inaugurando il monumento a Puškin: lì ci troverai un inno all’irriducibilità dello spirito russo che è quello non dei suoi capi ma del suo popolo minuto, che concepisce empatia e comprensione universale tra i popoli basata sul reciproco rispetto perché ognuno ha la sua storia, e quella russa non è quella dell’Occidente. Certo non immagino Dostoevskij inalberare in piazza la “Z” dell’invasione in Ucraina, ma guarda che oggi lui si riconoscerebbe nel tentativo di salvare la Russia dall’omologazione all’Occidente che voi avete immaginato dopo il 1989”.
Ecco, su questo sono entrato in crisi. Ma è proprio così, cari amici? Siamo ancora davvero afflitti da tale incorreggibile senso di superiorità verso i russi e la loro storia? Io sono liberale e democratico, ma non ho mai creduto che la storia dei popoli si annulli. Cosa possiamo e dobbiamo fare, per non ricommettere lo stesso errore e diventare incapaci di dialogare con la profonda anima russa, confondendola invece con le follie di Putin? Datemi una risposta, se l’avete. Io il mio amato Fëdor al seguito del miliardario patriarca Kirill non ce lo vedo proprio.
Oscar Giannino
Intervista a Gabriele Lavia