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Oltre “Nessun dorma” c'è di più. Lode al Puccini estremo di “Turandot”

Jacopo Pellegrini

Nel "dramma lirico in tre atti" l’equilibrio fra dimensione sentimentale e intellettuale sprofonda nel Novecento. L’opera, applauditissima, è in forma di concerto all’Accademia di Santa Cecilia

Milleottocentocinquantotto-1924: nel conteggio degli anni corrispondenti ai confini d’una vita, la porzione pertinente al XIX sec. soverchia quella nel XX sec. Eppure, a ben vedere, a ben ascoltare anzi, Giacomo Puccini – perché di lui si tratta – appartiene in toto al nuovo secolo. Esponente della modernità altrettanto nella musica che nella vita: se tutti sanno ch’egli morì per un tumore alla gola causato dall’abuso di sigarette, molti forse ignorano che si sottopose a una cura radioterapica di tipo sperimentale (purtroppo invano); attratto dalle novità meccaniche e tecnologiche, fu tra i primi in Italia a acquistare un “bicicletto” (lo chiamava così, al maschile), un’automobile, una barca a motore; maniaco dell’eleganza ai limiti del pervestito, oltre a fare incetta di cravatte regimèntal (riservate in teoria ai membri di quel dato reggimento, di quella data università…) che indossava provocatoriamente nei ristoranti e nei club di Londra, negli ultimi anni di vita sfoggiava un orologio da polso ultrapiatto.


Ma a certificare la modernità di Puccini sono prima d’ogni altra cosa i prodotti del suo ingegno, le opere liriche delle fasi matura e tarda (anche le prove giovanili – “Le villi” e specialmente “Edgar” – contengono tratti musicali profetici, ma inceppati e appannati da una drammaturgia inefficace, fasulla). Caso pressoché unico nella storia della musica, tutto il Puccini ‘adulto’ è parte integrante del repertorio internazionale: una prerogativa condivisa solo dagli analoghi Mozart e Wagner. “Manon Lescaut”, “La bohème”, “Tosca”, “Madama Butterfly”, “La fanciulla del West”, i tre atti unici “Tabarro” “Suor Angelica” “Gianni Schicchi” riuniti nel cosiddetto, maldetto, “Trittico”, “Turandot” compaiono abitualmente, chi più chi un po’ meno, nei cartelloni del mondo intero; e persino “La rondine”, dopo decenni di ostracismo, è ormai saldamente attestata ai confini della popolarità. 


Questo successo universale sembrerebbe deporre a favore della tesi, a lungo prevalente, di un Puccini devoto a oltranza alla tradizione italiana che nell’opera privilegia il canto su tutti gli altri parametri musicali; un Puccini che mai smette di aggiornarsi nella tecnica, di affinare un mestiere scaltritissimo, ma che resta l’esponente di un genere attardato se non sorpassato (tale il melodramma italiano postverdiano è stato a lungo considerato in rapporto alle varie forme di dramma musicale affermatesi in Europa dopo Wagner). La quantità di pezzi isolati divenuti veri e propri hits avvalora a prima vista tale ipotesi: si pensi soltanto all’abuso perpetrato negli ultimi trent’anni, auspice Luciano Pavarotti, su “Nessun dorma”, l’aria della “Turandot”, nota a tutti come “Vincerò”. 


Sembra, ma non è così. A parole l’ultimo Puccini, quello che va dalla Prima guerra mondiale alla morte, deplora che “La melodia non si fa più – o se si fa è volgare – Si crede che il sinfonismo debba regnare e invece io credo che è la fine dell’opera […] – In Italia si cantava ora non più – […] diafanismo […] linfatismo […] vera lue oltremontana” (lettera del 1° maggio 1922 a Renato Simoni, critico teatrale del Corriere della sera, drammaturgo e, con Giuseppe Adami, altro giornalista e drammaturgo, librettista di “Turandot”, allora in cantiere). Nei fatti, tuttavia, è stato lui il primo qui da noi a perseguire una drammaturgia su base sinfonica, in cui cioè l’orchestra conduce il discorso (basato su un ordito di motivi musicali ricorrenti) e solo in alcuni momenti, di norma non troppo estesi, lascia campo libero alla voce cantante (che altrove non è sacrificata, sì però integrata in un contesto più articolato). E si badi, per restare al Puccini ultimo, a come il canto spiegato, per lo più riservato a (rare) arie solistiche, venga illuminato dai riflettori e come messo tra virgolette, e proprio per questo possieda, debba possedere, un grado altissimo di febbricitante bellezza.


Attenzione però a non leggere questo fatto in chiave evolutiva, come sviluppo inesorabile dal semplice al complesso del linguaggio musicale. Inventare melodie ‘belle’ e sorgive diviene sempre meno facile non tanto per effetto di un contesto sonoro (ritmo, metro, armonia, orchestrazione) che va complicandosi sempre più, bensì in conseguenza di un quadro storico-sociale radicalmente mutato nel segno del conflitto: cantare a cuore aperto presuppone sentimenti concordi, ma dove trovare concordia durante e dopo la Prima guerra mondiale, il “biennio rosso” (1919-20), lo squadrismo fascista? Inoltre, lo sgretolarsi dello stato liberale, da Puccini lealmente appoggiato (Giolitti era per lui il paradigma del politico), induce il compositore a variare l’assetto della sua drammaturgia, a dare conto, senza idealizzarla (com’era avvenuto nella “Bohème”), della condizione proletaria (“Il tabarro”), a descrivere l’ipocrisia correlata al predominio del valore di scambio sul valore d’uso (l’assillo del denaro nella “Rondine” e nello “Schicchi”), lo scontro tra classi sociali e il comportamento irrazionale delle masse.


Di queste tematiche legate alla contemporaneità gran parte confluisce in “Turandot”, “dramma lirico in tre atti” intrapreso nel 1919, elaborato lento pede tra il ‘20 e il ‘24 per inadempienze e irreperibilità dei librettisti oltre che per le consuete incertezze e incontentabilità di Puccini, rimasto incompiuto per sopravvenuto decesso del compositore, rappresentato postumo nel 1926 alla Scala con la parte finale completata da Franco Alfano (altro connotato tipico del Novecento l’incompiutezza: nel solo teatro in musica troviamo “Lulu” di Berg, “Moses und Aron” di Schönberg, “Doktor Faust” di Busoni…). Puccini avvertiva il peso del cimento (“tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta [espressione vernacolare lucchese] e non mi piace più. Sarà buon segno? Io credo di sì̀”, scrive a Adami nel ‘24), consapevole della scelta di campo compiuta nel ‘20 auspicando “una Turandot attraverso il cervello moderno, il tuo [di Simoni], Adami e mio”. Fin l’individuazione del soggetto, l’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi – lo scrittore veneziano rivale (perdente) di Goldoni ma oggetto di ammirazione da parte dei romantici tedeschi e delle avanguardie europee primonovecento – segna una svolta: era dai tempi di “Manon Lescaut” che Puccini non si rivolgeva a opere letterarie o teatrali di riconosciuta importanza (se non artistica perlomeno storica). Ha un bell’invocare a più riprese sentimento e anima, “l’espressione […] più diretta e più comunicante” con il pubblico; stavolta sulle emozioni prevale l’originalità del “soggetto chinese antico leggendario quasi fantastico” che pretende “gran messa in scena” e offre “gran varietà, bei tipi”. Tutta la produzione di Puccini si presta, del resto, a due livelli di lettura, distinti tra loro ma in equilibrio: l’uno essoterico, diretto popolare, centrato sulla dimensione sentimentale e canora, sulla ‘tradizione’; l’altro esoterico, indiretto, centrato sulla dimensione intellettuale, sulla ‘modernità’. Senonché in “Turandot”, come già nel “Trittico”, l’equilibrio non è più stabile, inclina e sprofonda nel Novecento, e la melodia di marca pucciniana – che nell’opera ultima tutti ravvisano nel cantilenare pentafonico di Liù, mentre secondo me affiora in specie dagli assoli di Calaf – si rivela una componente tra le altre, trattata quasi sempre, già l’ho detto, come una citazione, un objet trouvé.


Così almeno è sembrato a varie bacchette illustri; così invece non sembra al non meno illustre Antonio Pappano, che con i complessi di Santa Cecilia e una compagnia di spicco ha presentato in forma di oratorio condito con scarni, non sempre felici effetti luministici e qualche accenno gestuale la prima delle due “Turandot” previste a Roma nel mese di marzo (l’altra ovviamente sarà all’Opera da domani al 31 – otto recite già esaurite –, al podio l’ucraina in grande ascesa Oksana Lyniv, regìa, scene, costumi e video del ben noto artista dissidente cinese Ai Weiwei, al suo esordio in teatro). Intendiamoci: Pappano sa bene quali e quante gemme siano incastonate nei pentagrammi della partitura, non poche ne mette anche in luce, solo preferisce la sintesi all’analisi, un tessuto compatto e al limite un po’ impastato, anziché trasparenze o iridescenze. Il suo sguardo potrebbe definirsi retrospettivo, il suo interesse si appunta sulle arie, il suo animo consuona con Liù la melodiosa, con gli archi che doppiano il canto: con il Puccini ‘pucciniano’ insomma. Cerca giustificazioni psicologiche, emotività in personaggi che l’autore stesso definisce tipi, più simili a burattini o a maschere che a esseri in carne e ossa. La grandiosità inusitata dell’apparato, la dimensione rituale insistita, il tempo circolare (ritorno a distanza di segmenti identici, prevalenza di ritmi di marcia, ostinati, pedali) che s’insinua e quasi nega quello rettilineo dell’orologio, il colore orientale autentico o inventato di tanta musica assolvono nella visione di Pappano a una funzione descrittiva, sfondo non figura, per ricorrere alla terminologia della Gestalt. Ma è lecito pensarla diversamente e attribuire loro un significato centrale, strutturale.


E’ stata una bella esecuzione, ci mancherebbe, e con l’orchestra che s’è coperta di gloria; una lettura, tuttavia, non ancora del tutto a fuoco (era la prima volta che la dirigeva dal vivo, nei giorni precedenti l’aveva registrata in disco) e non esente da qualche incidente tecnico. In un’intervista banalotta riprodotta nel programma di sala, Pappano rimarca la centralità del coro, rara “nei lavori di Puccini”, poi però si limita a farlo ben cantare (gli manca un briciolo di teatralità, com’è ovvio trattandosi d’un coro sinfonico) e non s’interroga sulla natura di questa massa proletaria incoerente e fuori controllo, accostabile alla “folla criminale” o “delinquente” descritta anni prima dai sociologi e criminologi Le Bon, Tarde, Sighele, Simmel (più complesso il discorso su “Turandot” opera protofascista, tema sondato dalla recente musicologia anglofona con esiti interlocutori); individua a ragione nel quadro delle maschere cinesi all’inizio del II atto una “scena quasi da musical” (il riferimento esatto è ai numeri musicali della rivista), poi però riporta Ping Pang Pong agli stilemi buffi dell’opera ottocentesca, ammettendo persino inflessioni parlate nei tenori (Bonfatti e Maqungo; meglio il baritono Olivieri, ma se non sistema alla svelta gli acuti con la sua vocina gradevole e delicata che farà, dove andrà?); non gli sfugge l’abbondanza di pezzi chiusi, che accompagna e dipana molto bene (tra l’altro, fatto rarissimo, evidenziando le sottili varianti cui Puccini sottopone uno stesso disegno orchestrale nel trasferirlo da uno strumento all’altro), poi però non ne trae conseguenze sul piano dell’approccio drammaturgico. La vasta introduzione corale al I atto che si chiude con una cadenza perfetta, un punto fermo; le arie solistiche e i pezzi d’insieme costruiti secondo lo schema ottocentesco in sezioni separate: non si tratta di rispettare convenzioni, bensì di ripescare dal passato relitti a fini manieristici, allusivi, se non di argine oggettivo alla deriva irrazionalistica del tempo. Infine: Puccini in “Turandot” evoca (in alcuni casi commemora) e accosta forme di spettacolo le più diverse – il melodramma italiano e il grand opéra francese, l’operetta e il music-hall, il Puppenspiel, la rivista e il cinema – con l’attitudine del prestidigitatore o del tassidermista. Il distanziamento ironico, l’impassibilità del rito vi giuocano una parte preponderante; altro che partecipazione affettiva.


Pappano, tra i due finali composti da Alfano, ha scelto il primo (respinto da Arturo Toscanini, direttore incaricato della première), più lungo e, se possibile, più brutto di quello consueto: non so perché molti lo giudichino più coerente dell’altro, quando al contrario i presunti trapassi logici che conterrebbe altro non sono che diversioni e sbrodolature retoriche.


Voci ben concertate e indotte a rispettare le dinamiche prescritte. Qualche frase spezzata da prese di fiato abusive inquinava il canto della Radvanovsky (Turandot) e della Jaho (Liù), l’una in possesso di mezzi vocali solidi – tranne che in basso – e abbastanza ben controllati quantunque forse Puccini non sia il suo autore, l’altra di timbro non squisito ma in grado di smorzare gli acuti con soddisfazione del pubblico. Irreprensibile, al contrario, il profilo delle frasi nella prova offerta dal divo Jonas Kaufmann: la parte di Calaf poco gli si addice né è stata completamente assimilata (parole e note; nel duetto di Alfano anche la Radvanosky esibisce una preparazione lacunosa), ma le mezzevoci non mancavano di suggestività e la dizione, diversamente dalle colleghe, era chiara. Pertusi offriva di Timur un ritratto nel segno di dolcezza e lontananza, appena carente d’imponenza in un paio di frangenti. Ottimi comprimari Cortellazzi (Altoum) e Mofidian (Mandarino). Auditorium finalmente pieno e in visibilio, con tanto di “W Pappano” scritto sullo specchio di un bagno per signore: che gran soddisfazione!


 

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