Facce dispari

Un maestro per amico. Le mie chiacchiere con Morricone

Francesco Palmieri

La musica di Alessandro De Rosa, la sua frequentazione con il compositore romano e il libro-intervista che scrissero insieme 

Inarrivabile con la bacchetta, Ennio si servì della penna di Alessandro per comporre la propria biografia, al termine di un dialogo fiume che si sviluppò a puntate, lungo quattro anni e decine di incontri. Lui, Alessandro De Rosa, 37 anni, musicista cresciuto nella periferia milanese, studente di Boris Porena, diplomato in Composizione al Conservatorio Reale dell’Aja, conquistò la fiducia di Morricone con la pudica sfacciataggine di un diciannovenne, quando nel 2005, approfittando di una visita del maestro a un cinema di Milano, gli consegnò una lettera e un cd con il proprio lavoro. Undici anni dopo, nell’aprile 2016, sarebbe uscito il libro Inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita. Conversazioni con Alessandro De Rosa, oggi alla terza edizione in italiano e che continua a essere tradotto in varie lingue.

 

Sono cose che si vedono nei film, il ragazzo che consegna una busta coi suoi sogni a un mito della musica…
… il quale addirittura mi rispose il giorno dopo. L’indomani, tornato a Roma, Morricone ascoltò il cd e chiamò a casa, parlò con mia mamma perché non c’ero, poi riprovò e lasciò un messaggio in segreteria telefonica: “Lei ha grandi qualità, ma deve studiare composizione e io purtroppo non ho tempo per insegnargliela”. Cominciò così il nostro rapporto: per me fu un faro in un mondo difficile, dove sei portato a svalutarti se gli altri non ti valutano tanto. Coltivai il nostro rapporto mentre studiavo in Olanda: andavo periodicamente a visitarlo a Roma senza dire niente a nessuno.

 

Come nacque l’idea del libro?
Con la fiducia e con il tempo. Con l’affetto. Ogni volta che tornavo a trovarlo ci conoscevamo meglio. Il libro fu il frutto di quelle chiacchierate, che presero la forma di una lunghissima intervista autobiografica. Un discorso proseguito con il podcast “Io e Ennio Morricone”, uscito nel febbraio 2020 su Amazon, dove ancora una volta il maestro ha raccontato la sua storia, gli incontri, la carriera, le sue riflessioni sul cinema e la musica.

 

Lei ha preso parte anche al docufilm “Ennio” di Giuseppe Tornatore, presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia e che arriverà nelle sale il 17 febbraio prossimo.
E’ un’opera di 150 minuti, un maestoso lavoro di sei anni cui partecipò lo stesso Morricone, con interviste eccezionali: da Tarantino a Eastwood a Bertolucci, poi Springsteen, Oliver Stone, Bellocchio, la Wertmuller… Ci sono parecchi aspetti inediti anche della quotidianità privata del maestro.

 

Era una persona dall’apparenza ruvida, schiva. Non doveva essere facile il rapporto con lui.
Ennio era molto duro con sé stesso e molto dedito a ciò che faceva, ma dietro l’apparenza è stato una delle persone più sensibili che abbia mai conosciuto e sapeva scavarti nel profondo. E’ stato un uomo che ha dovuto confrontarsi col suo tempo, con il mercato, e che aveva la necessità di difendersi in un mondo inquinato dove non è facile arrivare a certi livelli senza avere sviluppato un po’ di durezza.

 

Qual è il lascito maggiore di Morricone?
La sua grandezza è consistita nella capacità di toccare tutte le esperienze musicali offerte a un compositore dal suo secolo per farle dialogare tra loro, e di connetterle partendo dall’idea dell’immobilità dinamica. Ossia rielaborare in modo nuovo le cose che diamo per scontato stiano ferme in un’opera di sintesi davvero unica.

 

Lei da musicista come ci sta provando?
Ho appena terminato un album che uscirà a febbraio con Fantine Tho, una songwriter brasiliana che ha vinto due dischi di platino nel suo paese. S’intitola “Flesh and Soul”, “Pele e Alma” in portoghese: sono 70 minuti di musica in otto brani collegati da un fil rouge che è l’incontro fra due identità, due voci interiori in un viaggio dentro sé stessi per conseguire la reintegrazione. Un disco che non è destinato solo all’ascolto passivo, ma è un invito a immergersi in un’esperienza. Condensa world music, brani tradizionali, richiami alla musica cinematografica e alla canzone. Non è new age, ma non saprei definire questo lavoro secondo una precisa etichetta. Si sposa ai testi di Fantine, che rispecchiano il suo impegno di attivista per la riforestazione del Brasile e la tutela delle comunità indigene. Una ricerca di armonia col Sé e con il mondo che abitiamo.

 

Torna alla mente “Mission”, l’incontro del gesuita con i guaranì sulle note di Gabriel’s Oboe. L’universalità della musica non è retorica, o quanto non lo è?
Una stessa musica assume significati diversi a seconda dei tempi e dei luoghi. E’ come il rito del matrimonio per la Chiesa, che si ripete sempre uguale con sposi sempre diversi. C’è la componente soggettiva dell’ascoltatore: una canzone ricorda a ciascuno un suo momento peculiare, ma tutti possono ritrovarsi a intonarla in coro in uno stadio. Certo sarebbe auspicabile, come Ennio diceva spesso, aumentare la coscienza musicale degli italiani già nella formazione scolastica, perché questa cultura non resti una parola vuota ma serva a costruire una vita emotiva più soddisfacente.

 

Un esempio in due parole?
Se entri nell’universo di Gustav Mahler capisci meglio la vita amorosa, e capisci meglio la morte. La musica è anche più efficace di altre forme espressive. E’ stato dimostrato che un malato di Alzheimer, riascoltando una melodia che conosceva bene, s’accorge se è stata inserita una nota sbagliata.

 

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