Giulio Sapelli (foto LaPresse)

Facce Dispari

Giulio Sapelli, amarcord torinese di un vecchio comunista

Francesco Palmieri

Gli anni della formazione, fra la Chiesa e il Partito nella Torino degli anni 60. Poi il terrorismo e una città ancora da sognare. Quattro chiacchiere con l'economista e dirigente 

Conversare col professor Giulio Sapelli senza parlare di economia è scelta dispari per fargli raccontare una Torino che lui dice non c’è più. Per incoraggiarlo a scrivere, un giorno di questi, le memorie di quel “mondo di ieri”.

 

Prof, da quanto manca a Torino?

Da parecchio. La mia Torino non esiste più, preferisco viverla in un ricordo di struggente bellezza.

 

Luoghi dell’anima?

Il Valentino, la Gran Madre, il Lungo Po.

 

Luogo d’infanzia?

La casa di via Sant’Anselmo 18 accanto alla fabbrica Schiapparelli. Oggi quel civico non c’è più, il palazzo ospita Intesa Sanpaolo. Vissi l’infanzia al terzo piano, in un alloggio di ringhiera senza ascensore col bagno in comune. Lo dividevamo col signor Marengo, un uomo importante per me.

 

Chi era?

Un operaio di Sampierdarena. Costretto a emigrare in Francia durante il fascismo, aveva fatto il maquisard. Tornò con una moglie bellissima, francese, che un giorno lo lasciò. Lui chiese a mia nonna: “Madama Sapelli, mia fumma ’a là lasame. Devu cateme ’na pistola o ’n mandulin?’. ‘’N mandulin’, disse la nonna. Suonava ogni sera e c’incantava. Fu il primo a menzionarmi Gramsci. Lo aveva conosciuto nell’occupazione delle fabbriche: lo ricordava con la testa grossa, nerissimo, parlare a voce bassa ma tutti lo ascoltavano.

 

Com’era la sua famiglia?

Mio padre era un bravissimo fotoincisore, dirigente sindacale. Rimase orfano a due anni quando mio nonno, fra i primi iscritti al Partito popolare, fu ucciso dai fascisti. Mia nonna e papà furono ospitati dai conti Conzani, lei lo portò all’oratorio salesiano dove un giorno avrebbero portato me. A Torino politica di sinistra e fede non vivevano in contraddizione, c’era una tradizione di santi sociali come don Bosco, Allamano, Cottolengo. Mio padre leggeva Buonaiuti. Perse il posto a La Stampa perché partecipò agli scontri di piazza Statuto nel ’62. Per due anni ci mantenemmo col lavoro di mia madre e io fui costretto a fare le scuole serali.

 

Un’adolescenza difficile.

No, meravigliosa anche se mangiavamo carne solo due volte a settimana. Quando fui assunto in Olivetti, a 19 anni, alla mensa c’era sempre carne e mi sembrò di essere ricco. 

 

E suo padre?

Fu riassunto. Una sera si presentò a casa l’amministratore della Stampa: si passava alla fotoincisione e avevano bisogno di lui. Chiusano aveva una borsina di coccodrillo, ne tirò fuori un contratto e disse: ‘Non me ne vado finché non firma’. Quei dirigenti non ci sono più, neanche quegli operai e sindacalisti né sacerdoti come don Ruffini, che mi crebbe all’oratorio. Una Torino dura ma con gente piena di idee e sentimenti.

 

Perché s’iscrisse al Pci?

Un giorno nel ’64 Edoardo Sanguineti, conosciuto ai salesiani, mi mostrò su ‘Rinascita’ un articolo di Bobbio e Amendola sulla necessità del partito unico, poi mi presentò a Casadei, segretario della Federazione giovanile. Ma a pensarci, diventai comunista perché conobbi gli operai comunisti, perché c’erano dirigenti come Pecchioli, al quale ogni anno Valletta regalava una Fiat 1100 bianca e lui ogni volta chiamava un compagno e diceva: ‘Riportala alla concessionaria’. Sono diventato comunista perché mia madre, siciliana venuta a Torino con la famiglia quando non s’affittava casa ai meridionali, e che cominciò a lavorare a otto anni come modista, riuscì a integrarsi grazie a queste grandi forze: i partiti e la Chiesa. Che la politica integri le cose non ho avuto bisogno di leggerlo. L’ho vissuto. Mi considero fortunato.

 

Fece scuola di partito?

All’Istituto Marabini. Nessuna lezione sul marxismo, ma storia e letteratura: si formavano, più che dei comunisti, degli italiani cui il Partito dava un po’ di cultura. Si poteva uscire ma il rientro era alle 23. Un certo Michele, infermiere alle Molinette, aveva conosciuto una vedova e passava la notte da lei. Io lo coprivo ma un compagno ci denunciò. Al mattino il direttore, un operaio, radunò tutti: mi sanzionò ma cacciò il delatore: ‘Qui – disse – spie non ne vogliamo’.

 

Poi andò alla Olivetti.

Nel ’66 grazie a Franco Momigliano, conosciuto alla camera del lavoro mentre preparavo l’esame da privatista per diplomarmi. Per sei mesi contai i buchi delle schede perforate. L’Olivetti preparava il passaggio dalla meccanica all’informatica. E frequentai l’università: davano un aumento a chi s’iscriveva.

 

Ricordi brutti?

Gli anni del terrorismo. Ho visto uccidere il maresciallo Berardi. Entrambi prendevamo il tram 5 in largo Belgio, anche quella mattina. E ricordo lo choc quando Pecchioli disse che gli operai Fiat avevano applaudito l’assassinio del giornalista Casalegno. Capii che avevamo davanti una forza terribile e che l’idea di progresso è fragile. Non dormivo più tutti i giorni nello stesso posto perché mi minacciavano.

 

Cos’era successo alla classe operaia?

Fu sedotta dall’estremismo. Non ho mai dubitato che la classe operaia sia progressista solo se guidata. In quel momento non la guidava più nessuno.

 

Intanto lei si laureava.

Con tesi pubblicata su ‘Fascismo, grande industria e sindacato’, che piacque a Giorgio Amendola e Renzo De Felice. Mi chiamarono a insegnare Storia del movimento sindacale a Trieste. Nel ’75 cominciò il mio rapporto con l’Eni, che dura tuttora, e nell’80 diventai direttore della Fondazione Feltrinelli.

 

Tornerà a Torino?

Mi serve più sognarla che vederla.

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