Una fogliata di libri

Quando il momento “negativo” è indispensabile alla storia

Michele Silenzi

Le più grandi conquiste e creazioni nascono in seguito ad un evento negativo, un dolore o un ostacolo che spinge l'uomo a lavorare per migliorarsi. Rimuovere il dolore è dunque deleterio per l'azione umana

Il periodo natalizio e del passaggio di anno ci ricorda sempre quale sia la natura più profonda delle festività: la rinascita, il rinnovamento di ciò che è stato per aprirci a ciò che sarà attraverso la liberazione da un male, da qualcosa che impediva di realizzare ciò che di buono, in potenza, è in noi e nel mondo.

Una simile tensione muove la maggior parte delle storie che sono basate, in modo più o meno sofisticato, su una struttura tripartita ben chiara con al centro un conflitto come motore della vicenda: esiste una situazione posta, una normalità, che viene sconvolta da un incidente generando un pericolo; infine ci si salva e si stabilisce un nuovo, e di solito migliore, ordine. Si tratta di una sorta di sillogismo il cui termine medio è sempre il negativo, una malsicurezza che genera il movimento della storia, il mutamento dei protagonisti che agiscono e cambiano e imparano qualcosa superando il dolore, spesso rischiando la vita. Ciò vale tanto per le storie di finzione quanto per la storia degli uomini.

Tuttavia, dire che questo momento negativo sia da identificare con un “male” non è del tutto vero. Infatti, il momento negativo può anche essere “positivo”, ossia può essere una grande innovazione, una scoperta, ma in ogni caso è una rottura di equilibrio e genera un trauma da cui si esce diversi. E’, il momento negativo, l’essenza della vita come mutazione, come trasformazione, come formazione della persona. Ciò che ci rende individui particolari, ciò che rende ogni storia una storia a sé, interessante e da raccontare. Il momento negativo è dunque il motore di ogni creazione narrativa, ma allo stesso tempo è sempre traumatico. E qui sta il punto.

Questa tensione creatrice di storie, ovvero di vite, rischia di vedersi annullata dal posto assegnato nelle narrazioni contemporanee alla figura della vittima: il nuovo Assoluto su cui far convergere il bisogno di fede e di salvezza delle nostre società interamente laiche ma sempre in cerca di qualcosa in cui credere. La vittima posta come Assoluto (lo sappiamo bene da Girard in giù) ha alla base una tensione a voler eliminare in modo definitivo, e perfino a prevenire, tutto ciò che è trauma e dolore, ossia tutto ciò che possa generare vittime. Il dolore diviene il nuovo paradigma del vero e del giusto. Ogni dolore deve essere spento, e quindi ogni trauma possibile, ogni rottura, ogni negatività va prevenuta e infine radicalmente evitata.

L’unica azione legittima diviene quella che tende a non generare più alcun trauma e alcuna vittima, fino all’augurale sparimento di qualsiasi trauma, fino all’augurale raggiungimento di una situazione edenica di assenza di male. Ma nell’assenza del momento negativo, ossia in un Eden senza serpente, non c’è storia. Perché è precisamente il male, il serpente, l’assolutamente negativo, ciò che dà inizio alla Storia di tutte le storie. Ed è così che viene a porsi al centro della Storia (e di tutte le singole storie), come suo creatore e protagonista, l’individuo libero e creatore che si autodetermina drammaticamente attraverso le proprie azioni. Eliminare il male, il termine negativo, l’avversario, significa eliminare la possibilità stessa dell’azione umana, e quindi l’uomo tout court che si identifica con il suo pensare e il suo fare, ossia con la sua stessa “narrazione”.

Nessuna storia, intesa come vita personale o romanzo o film, e nessuna Storia, esiste senza avversario, senza un’opposizione per sua stessa natura dolorosa con cui misurarsi. Ogni storia è formata dalla traumatica rottura di un equilibrio senza la quale ci sarebbe il nulla, la suprema uguaglianza senza movimento; una pace uniforme senza niente da raccontare.
 

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