Veduta di Leonforte (da Wikipedia)

Nostalgie, teatro, risate guascone e fantasmi. In una parola, Buttafuoco

Francesco Palmieri

Leonforte fuori latitudine e longitudine in “Sono cose che passano”, l’ultimo libro dello scrittore siciliano

Leonforte, da quando ne scrive Pietrangelo Buttafuoco, è un paese immaginario malgrado si ostinino ad avallarne la mera consistenza geografica testimoni attendibili quali i suoi abitanti, le Poste italiane che gli attribuiscono il cap 94013, le mappe dettagliate di Sicilia sotto le coordinate 37°39’N 14°24’E, e ovviamente Wikipedia. Nella Leonforte di Buttafuoco latitudine e longitudine sono misure relative al lettore al pari della sua disposizione nel tempo, anche quando le date risultano precisate, anche se certi personaggi furono o sono titolari di una vita registrata all’anagrafe o nella Storia. Come nel romanzo “Sono cose che passano” (352 pp., La nave di Teseo, 19 euro). Chi entra a Leonforte dalla porta del libro, stavolta si ritrova spettatore dell’amore cieco tra una principessa, Ottavia di Bauci dagli illustrissimi natali e di fulgida bellezza, e il baroncino immeritevole Rodolfo Polizzi, velleitario ma puro per virtù di vacuità. S’accalca attorno all’incongrua coppia una folla più di archetipi che di meri caratteri in cui spiccano anche il Diavolo e la Morte, come accade nelle fiabe o nel teatro dei pupi, ritenuti per usuale pregiudizio assai distanti dalla cronaca nera.

 

È raro il caso – perciò non è più caso – di un incontro fortuito da cui s’accenda una passione che magari passerà come tutte le cose, però senza lasciare nulla come lo ha trovato prima. Ancor più raro adesso, nelle nostre vite mineralizzate di periferia globale, quel caso invece lo fu meno nella Sicilia del 1951, quando sboccia la storia di Ottavia e di Rodolfo e Leonforte senza internet è più connessa al mondo e a un tempo smossi e scossi da lei, la principessa di Bauci. Amica di Rossellini e Bergman, nipote degli ineffabili fratelli Piccolo di Calanovella, memore ancora del masnadiero esoterismo di Aleister Crowley a Cefalù, già arbitra di riti goliardici e cruenti nei college stranieri dove studiò con l’amica Lucy, che pure arriva al paese e si fa attrice in un teatro fatto di scontri. Con tutto il cosmo minore del Circolo di Compagnia. È lì, leggendo di una Leonforte oltre Wikipedia, che uno di noi vorrebbe entrare per commentare la strana malattia del baroncino e gli sbotti collerici della matriarca Donna Tina, che lo nutre con chili di pesantissime prelibatezze. È lì che verrebbe da sedersi tra figure come l’insegnante d’improbabile inglese Tubì (ToBe), omaggio allo sciasciano abate Vella; come l’irreprensibile dottor Buscemi, all’occasione corrispondente del Corriere di Sicilia; o il “feroce”, nella borbonica accezione, maresciallo di pubblica sicurezza Gavino Sechi. È lì che verrebbe da curiosare tra personaggi che dimorarono in molte precedenti pagine dell’autore e ora si rivedono: chi ha già letto Buttafuoco rincontra zia Lia. Riacciuffa zio Nino. Ecco che macina una campagna elettorale di successo girando con l’automobile che di caffè macinato profuma, mentre nel palazzo baronale infestato dai gatti si consuma il misterioso amore di Ottavia e Rodolfo, ossia la consunzione fisica di lui e i tradimenti (ma affettuosissimi) di lei. Fuori intanto nel febbraio agli sgoccioli una radio rimanda, in lontananza, “Grazie dei fiori” di Nilla Pizzi.

 

Che nostalgia ci attrae verso codesto inizio di secondo Novecento. Malgrado la tragedia della guerra s’impigli ancora nel suo strascico, scintillano nel prisma di quel tempo angeli e demoni fra Londra e la Sicilia, Ottavia tremenda shakti indù sull’Alfa Sport Touring e don Casimiro Piccolo che si sfila il guanto solo per salutare il capo degli gnomi dentro una notte a Capo d’Orlando. Che nostalgia quando ancora si partiva in nave per l’America, siamo giunti al ’59, salutando sul piroscafo tal promettente pugile istriano Nino Benvenuti. Che mondo picciriddu è questo d’oggi appetto a quello dove passeggiando per Roma, verso piazza Adriana, potevi incontrare la curiosa coppia del socialista Pietro Nenni e del suo dannunziano coinquilino Carlo Delcroix, l’eroe mutilato che “non ha bisogno di guardare per vedere”. Consegna a lui, Buttafuoco, un ruolo primario nella volata conclusiva del romanzo, spostata nella capitale come la biografia dell’autore. Ma non si può anticipare la conclusione duplice del libro che avverrà sulla scena di un molo di Genova, né indicare la serratura narrativa avendo suggerito già le chiavi e certi temi ricorsivi (anche Delcroix, per chi rammenti “Il dolore pazzo dell’amore”, sarà un ritrovamento).

 

Per questo come per i precedenti libri, forse di più, vale associare l’autore a una sua frase: “Tutto ciò che è scomparso mi dilaga dentro”. Ossia amore(i), nostalgie, teatro, risate guascone e fantasmi assecondati da una prosa che, pur mettendo una pecetta sul nome in copertina, subito lascerebbe indovinare: è Buttafuoco. Sedici anni esatti dopo l’uscita delle “Uova del Drago”, lui per “Sono cose che passano” si sarà nuovamente detto: quasi quasi telefono a zio Nino per dargli notizia (don Casimiro assentirebbe). Dimenticando il Cicap, pensate per un attimo un mondo senza fantasmi che razza di mondo sarebbe. Solo un mondo di fantasmi.
   

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