L'autrice Gaia Grimani

facce dispari

Gaia Grimani, tra la poesia e l'amore di Piero Scanziani

Francesco Palmieri

L'incontro e la relazione con il grande poeta ticinese (nonché "padre" del mastino napoletano). Gli aneddoti con Montanelli. E la passione per i classici da diffondere con un linguaggio semplice. Conversazione con l'autrice sarda

Se la poesia di Gaia Grimani, dichiarò Geno Pampaloni, “ha come esito un cielo senza confini”, la sua storia ebbe a inizio un amore che proseguì fino alla fine – e prosegue – per un uomo sotto parecchi aspetti eccezionale. Per differenza d’età: Piero Scanziani aveva trentanove anni più di lei; valore letterario (due volte Mircea Eliade lo propose per il Nobel); disinteresse alla fama, sicché gli happy few che oggi ricordano i libri o giusto il nome di quest’autore svizzero italiano provano, se s’incontrano, il geloso piacere degli adepti a una setta. Lei, Maria Giuseppina Grosso Scanziani, alias Gaia Grimani, ha continuato a poetare, tenere corsi sui classici della letteratura e preservare l’opera di Piero, che abbandonò la nostra dimensione nel 2003 ma le aveva detto: “Quando me ne andrò verrò nel tuo cuore e non lo lascerò più”. Ci sono destini come colubri di Esculapio: se s’intrecciano, inestricabili persistono.

“La stella non è morta e nulla muore, ciò che muore ricade nella vita” scrisse Scanziani. “Non sanno che è immortale questo cuore che ti respiro dall’eternità” ha scritto Gaia Grimani. E aggiunge qui chi scrive – tacerlo sottrarrebbe tasselli al puzzle – di aver scoperto Scanziani autore solo dopo lo Scanziani cinologo sommo. A lui si devono la resurrezione e lo standard del mastino napoletano, l’antico canis pugnax delle legioni romane che salvò dall’estinzione dopo la Seconda guerra mondiale.

Benedetto chi attraversa la vita spandendo talenti di conio dispari, come se fosse più persone in una.

Gaia, come conobbe Scanziani?

Nel 1972 venne a Milano, dove avevo aperto uno dei primi studi italiani di relazioni pubbliche, per la presentazione di un suo libro. Avevo 25 anni, laureata in Lingue e letterature straniere alla Bocconi, facoltà poi chiusa nel periodo della contestazione. Nato a Chiasso nel 1908, lui aveva 64 anni. Era tornato nel Canton Ticino lasciata Roma, dove aveva lavorato come giornalista. Era stato sposato, aveva tre figli, non possedeva nemmeno il cappotto. Quando entrò nella stanza, sentii un gran senso di calore al plesso solare. Si stava dedicando a una biografia di Aurobindo, il mistico indiano, e me ne parlò. Piero aveva viaggiato nei posti più remoti alla scoperta della spiritualità, pubblicando articoli e libri.

Coniò il termine Entronauti, che diede il titolo a un volume. In anticipo sui tempi.

È stato il suo pregio e il suo ostacolo: comprendere prima degli altri. Gli Entronauti sono cercatori di Dio che si dedicano alla scoperta dei continenti interiori.

Piero era cattolico?

L’ultimo capitolo di ‘Entronauti’ parla degli anacoreti del Monte Athos, perché nato cristiano questa religione restò il suo punto di riferimento. Sottolineava però che l’esperienza supera la fede, perché è con l’esperienza che l’uomo si unisce a Dio.

Cosa gli interessava di più?

La scrittura. La praticava con ascetismo dalle sei di mattina a mezzogiorno, chiuso nella stanza da cui usciva trionfante se era riuscito a licenziare due pagine. Quando a Berna, durante la guerra, ospitò Indro Montanelli scappato dall’Italia, il suo amico scriveva in maniera fluviale ‘Qui non riposano’, Piero il romanzo ‘Felix’ con fatica assai più grande. Secondo lui i toscani, nella scrittura, partono avvantaggiati.

Montanelli affermò di essere stato testimone oculare a Piazzale Loreto il 29 aprile 1945. Molti invece ritengono che quel giorno fosse ancora in Svizzera.

Non potrei dirlo con certezza. So che restò un mese da Piero e che Indro ogni tanto nei racconti si faceva prendere la mano. Loro restarono amici ma Piero non gli chiese mai aiuto, anche quando versò in ristrettezze.

Quando vi sposaste?

Nel ’77. Fui io a spingerlo, lui era spaventato dalla differenza d’età. Lo convinse il suo più caro amico Massimo Scaligero: un pensatore, un gigante, l’uomo più innocente che abbia conosciuto. Viveva poverissimo a Roma e sulla porta d’ingresso aveva posto la parola Silentium. Piero disse: ‘Sai che questa pazza vorrebbe sposarmi?’. Massimo lo guardò negli occhi: ‘Tu potresti? Allora fallo!’. Fu come l’autorizzazione del fratello maggiore.

Svizzero italiano? Svizzero e italiano? Come definire Scanziani?

Lo spiegò in un’intervista: ‘La Svizzera è la mia nazione, l’Italia è la mia patria’. Per uno scrittore la lingua in cui scrive è patria.

Lei ha insegnato molti anni nelle scuole. Ora tiene con successo corsi, via Zoom per la pandemia, sui classici della letteratura: Iliade, Odissea, Divina Commedia. Qual è il suo pubblico?

Anziani col gusto di rileggere o scoprire i grandi; ex allievi che vogliono assaporare la bellezza dei classici come non fecero a scuola; persino madrelingua francese o tedesco, che riescono a capire il Paradiso e ne ricavano entusiasmo. La mia ambizione è comunicare i classici anche ai meno colti, con un linguaggio semplice ma senza minimizzarli.

Perché si è sempre firmata Grimani?

Da una fusione del mio cognome, Grosso, con quello di Scanziani.

A chi dedicherà il prossimo seminario?

A Leonardo Sciascia. Un galantuomo della letteratura.

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