facce dispari

Giorgio Amitrano, la “voce” di Murakami e Yoshimoto

Francesco Palmieri

Il dialogo col traduttore "nippo-napoletano" che La Capria inserirebbe nel novero dei rarefatti maestri dello "stile dell'anatra". I suoi maestri, i suoi amori letterari, il suo giudizio sulla fragilità del Giappone odierno

Se conoscendolo ve ne lasciate ingannare la colpa non è sua. Avvezzi al riscaldamento retorico del clima, consumatori d’enfasi e trompe-l’oeil intellettuali, sarà colpa vostra credere che Giorgio Amitrano, traduttore dei più importanti narratori giapponesi, lo faccia con la semplicità cui induce la sua mancanza di sussiego. Lui appartiene ai rarefatti maestri dello “stile dell’anatra” evocato da La Capria, che scivolano sull’acqua con grazia priva di sforzo apparente mentre nessuno vede la fatica tumultuosa delle zampe sotto la superficie. Amitrano ha dato voce italiana a Haruki Murakami, Banana Yoshimoto, Yasunari Kawabata, Yukio Mishima, Kenji Miyazawa; ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura a Tokyo; ha insegnato all’università di Osaka ma il suo cuore è a L’Orientale di Napoli, dove è cresciuto e ha studiato e dove è ordinario di Letteratura giapponese.

 

Su Wikipedia Giorgio Amitrano è designato “traduttore”.

Considero mio lavoro primario quello del professore, già impegnativo ma gravato negli ultimi anni da oneri burocratici che tutti i colleghi soffrono quanto me. L’attività di traduzione e scrittura vi s’aggiunge, ma restando nel campo della nipponistica riesco a conciliare tutto.

 

Il tempo dove lo trova?

Semplice: dormo pochissimo.

 

Quanto è difficile tradurre narrativa dal giapponese all’italiano?

Si tratta di ricomporre il tessuto del discorso, con un ordine delle parole e codici espressivi completamente diversi. È un’opera di ricostruzione complicata.

 

Qual è il fattore più importante, oltre alle capacità tecniche, per non tradire traducendo?

Entrare in empatia con l’autore. Ho appena finito di lavorare su un romanzo inedito di Mishima che uscirà per Feltrinelli, ‘Vita in vendita’: è molto divertente, eppure ho vissuto momenti di difficoltà perché talvolta mi scontravo con espressioni così complesse da rendere in italiano che avevo la sensazione di tradurre poesia. Ossia quando hai bisogno di trovare una soluzione intuitiva che travalichi la corrispondenza parola per parola, per dare non solo il significato letterale ma l’atmosfera, la musicalità, l’intenzione.

 

E il suo Murakami?

A volte è stato disperante e divertente. Per esempio in "Kafka sulla spiaggia" la sfida era restituire la polifonia delle voci: quelle dei gatti ciascuno col suo modo di “parlare”, dal raffinato al rimbambito, o di un personaggio che ha un deficit mentale ma è dotato di poteri medianici.

 

Ne ha mai parlato con gli autori?

Diversi incontri con Murakami mi sono serviti a capirne meglio la personalità e la scrittura, ma non abbiamo discusso di traduzione. Invece alla Yoshimoto, che è una carissima amica, ho domandato spesso cosa intendesse in un certo passaggio.

 

Cosa possono attingere, i narratori italiani, dalla letteratura giapponese?

Da ‘amico della domenica’ dello Strega, penso che avrebbero molto da imparare. I romanzi nostrani sono troppo confinati al racconto familiare. Ma ogni tanto escono di casa?

 

Quali autori predilige?

Kenji Myazawa e Natsume Soseki, che amò molto anche Battiato pubblicandolo con la sua casa editrice L’Ottava. In assoluto Dickens e la letteratura francese. Capisco la grandezza dei "Promessi sposi", ma il batticuore me lo dà "L’educazione sentimentale" di Flaubert. La letteratura è come l’amore: i criteri oggettivi contano fino a un certo punto, nella frequentazione personale dei libri bisogna seguire il cuore.

 

Chi sono i suoi maestri?

Nell’università lo sono stati Maria Teresa Orsi e Luigi Polese Remaggi. Poi anche come maestro spirituale Namkhai Norbu, con cui ho studiato per quattro anni tibetano. Fuori dell’ateneo un carissimo amico fu Fosco Maraini, grande intellettuale avventuroso. E Cesare Garboli, cui sono stato legatissimo. Sono stato fortunato.

 

Perché un ragazzo dovrebbe studiare giapponese?

“Dovrebbe” no. Al primo anno già abbiamo circa 350 studenti, ai miei tempi ci laureavamo in sei o sette. Le lingue orientali erano qualcosa di esoterico. Oggi il Giappone non è tra i Paesi che dominano il mondo, la preminenza è cinese. Chi s’iscrive lo faccia per passione, non pensando agli sbocchi pratici.

 

Come vede il Giappone attuale?

Fragile. Mi preoccupa la tensione con la Cina, la debolezza militare anche se per princìpi nobilissimi, acuita dal disimpegno degli americani. I cambiamenti ne hanno fatto un Paese più aperto, che non antepone il lavoro a tutto, ma meno ordinato, anche se rispetto all’Italia educazione e senso di responsabilità restano incomparabili.

 

Tre anni fa ha pubblicato il saggio ‘Iro Iro: il Giappone tra pop e sublime’ .Non le è venuta voglia di esprimersi con la narrativa?

Cominciai una raccolta di racconti una trentina d’anni fa, ma non l’ho portata a compimento. Pensavo che un giorno l’avrei data in lettura a Roberto Calasso: la sua morte mi ha fatto capire quanto non si debbano rimandare le cose. Ma prima o poi la completerò.

 

Come si definisce?

Nippo-napoletano in crisi di astinenza da Giappone, dove spero di tornare finita l’emergenza sanitaria. Vuol mettere l’aria di certe librerie di Tokyo rispetto a un ordine su Amazon?

 

    

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