Il vero porto Italia

I ribelli di Torino. Una passeggiata al Salone del Libro

Carmelo Caruso

È nata la repubblica indipendente dell’Italia perbene, i facinorosi del green pass. Ieri, non era a Trieste che si capovolgeva lo stato ma a Torino che l’Italia si rimetteva in ordine

Chi c’era non voleva più partire. Chi non era  arrivato voleva invece già restare. A Torino è stata proclamata la repubblica indipendente degli sfrenati delle regole, dei tossici del green pass, degli alcolizzati dei vaccini, degli irriducibili del libro sul comodino. Si sono aggiunti anche gli evasori, quelli che leggono in ufficio di frodo (attenti, che il capo vi vede). Sono attesi anche i più pericolosi: i feticisti. Sono i collezionisti della prima edizione di Via col vento (mille  euro, copia intonsa) dell’introvabile Documenti di arte oggi di Gillo Dorfles (1.800 euro conservato perfettamente). Il colpo di stato lo hanno fatto loro.

 

Sono i visitatori del Salone del libro, una forza pacificamente violentissima, che da giovedì si è asserragliata nella sede del  Lingotto, qui a Torino, e che non ha intenzione di desistere. Stanno imbracciando Omero, si dicono pronti a lanciare la bomba carta Italo Calvino, che è sempre rampante. I loro fumogeni sono le matite. Le donne, le più agguerrite, si proteggono con i foulard per schivare i possibili colpi dell’agente (atmosferico) Föhn. Sono già al loro secondo giorno di lotta e se ne prevedono almeno altri tre, fino a lunedì. Cosa ha intenzione di fare il governo con questi sovversivi, vecchi, giovani, professori e studenti, che si radunano lungo la no man’s land “bookstore”, che corrono lungo i padiglioni fino a spingersi presso l’area chiamata Oval? Perché devono fare meno paura loro rispetto ai portuali, agli autotrasportori che (non) hanno bloccato il paese e che non vogliono farsi pizzicare dal dottore? Da due anni una comunità, una classe di classi, non sapeva se si sarebbe mai potuta incontrare. Somigliava ai soldati di Joseph Roth che vagavano lungo l’Europa demolita in cerca di una patria.

 

ospeso per due anni, il Salone del libro era finito per diventare come i ricordi di Gozzano, le malinconie degli scrittori di Swann, le vecchie corride di Hemingway. Davvero pensavate che questi lettori li avrebbero fermati i “serenissimi” della carta verde? Alle 6,40 la studentessa Lucia prendeva il treno Italo 9908 da Roma Termini in direzione Torino Porta Nuova perché “questo sarà il mio primo Salone. Riuscirò a vedere tutto?”. 715 padiglioni sono quelli dichiarati dal catasto che qui si chiama semplicemente “la mappa”. Nessuno teme la revisione delle rendite.

 

Le piazze prendono i nomi dei pastelli, la “sala magenta”, “la sala ambra” (“mi sa dire dove è la sala azzurra?”). Le case (editrici) sono divise per lettera e numero perché “nessuno si deve smarrire”. Il Viminale li sta sottovalutando. Chi si arruola si presenta con resistentissime sacche di tela che possono contenere, spiega la professoressa Grazia dell’istituto comprensivo di Carmagnola “fino a quattro tascabili e un classico”. Era quindi vero che si poteva riaprire inoculandosi dosi di scienza ed era vero anche che ci sono momenti in cui il dovere è l’azzardo. Racconta Nicola Lagioia, che è il presidente di questa repubblica autonoma, il direttore del Salone da cinque anni, che “non sapevamo come sarebbe andata la campagna vaccinale. Quando abbiamo iniziato a preparare questa edizione non sapevamo neppure se l’Italia sarebbe tornata chiusa in casa. La verità è che abbiamo scommesso”. Pascal scommetteva addirittura su Dio. Si può avere paura di scommettere su una fiala?

  
È sicuramente ancora presto ma forse un giorno questo 15 ottobre 2021 verrà ricordato – chi lo sa, magari dallo stesso Lagioia, che è premio Strega, l’autore della Ferocia, il nostro A Sangue freddo – come il giorno in cui l’Italia pensava di giocarsi la democrazia. E si temevano “i lazzari”, “i forconi”, “i sanculotti”. Si ha sempre poca fiducia nelle persone perbene. Quale genitore si sarebbe dichiarato No pass di fronte a Giuseppe, un Dante travestito con la corona e l’alloro, che faceva il saltimbanco strappando risate “divine”? Chi conosce il Salone sa che sono sempre state le scuole, il “quartino di stato” a far salire il contatore degli ingressi. Pure ieri c’erano queste tenere professoresse che facevano da capotreno. Accompagnavano la Seconda A, la Terza F. Sempre Grazia di Carmagnola  precisava che di fatto questa “è la loro prima gita dopo due anni in cui sono stati chiusi in casa. Guardateli. Sono ancora confusi. A casa si sono dimenticati come era fatto il mondo”. Garantiva che “questi vaccini ci stanno aiutando. Al momento non abbiamo i casi di contagio che l’anno scorso ci hanno fatto chiudere”.

 

È tornata insomma una nazione libertina, quella del Salone che viene denigrata dai maleducati, dai malmostosi che pensano ai libri come inutilità, come il lusso dei fannulloni. Non possono sapere che la vera angoscia del visitatore del Salone è perdersi qualcosa. Corrono tutti, “scusi, ma devo andare”. Sono una tribù con gli occhi al cielo che cerca di scorgere la lettera dell’alfabeto. Anche quest’anno il cuore del Salone è il solito stand del Libraccio, l’usato che passa di mano, il modernariato, 120 metri quadrati, 30 mila libri ordinati che sono la ricerca del tesoro. Solo il suo “architetto”, Michele Vitucci, un formidabile bibliofilo, riuscirebbe a risolvere questo labirinto. Rivela Lagioia, a cui fanno la stessa domanda che fanno a Mario Draghi “rimani ancora?”, che pure qui, al Lingotto, si sono temuti disordini di No pass ma più di tutto si temeva il flop che non c’è stato. Anzi. Sta già preparando la prossima edizione che si terrà a maggio, come è sempre stato nella tradizione.

 

“Ogni volta sono partito con qualche penalità e alla fine abbiamo vinto cinque coppe dei Campioni” racconta prima di correre a ricevere una delegazione albanese. La novità dell’anno è il trolley che tutti sono costretti a trascinare perché “il guardaroba è stato sospeso causa Covid”. Rappresenta un pericolo per il malato del libro. Per gli altri è un contenitore di indumenti, per il lettore è uno scaffale a rotelle. Cosa gli è preso agli italiani, la maggioranza? Il morbo ha anche scacciato l’altro morbo giornalistico, il solito “eh, gli italiani leggono poco”, il lamento, questo sì, dei noiosi. L’editoria italiana potrebbe chiudere l’anno e sono dati divulgati dall’Aie (Associazione italiana editori) con una crescita compresa tra l’11 e il 16 per cento. Si sta vendendo quello che qui si chiama “il catalogo” che è il patrimonio dell’editore che in Italia è sempre stata una figura controversa. Pensateci. Mondadori e Rizzoli avevano solo studi elementari, ma nessuno ha mai venduto quanto loro. Garzanti era “il padrone”. Einaudi non pagava Pavese.

 

Ci sono poi le figure felici perché irregolari, dissipatori di fortune, archeologi della carta perfetta. È una scuola che va da Vanni Scheiwiller e che arriva oggi fino alla Henry Beyle di Vincenzo Campo passando per il conte Nino Aragno, un imprenditore che fa l’editore come Gaja fa con le bottiglie di barolo: “Siamo amici e ci siamo divisi i compiti. Lui i vini e io i libri. Gli altri fanno i libri per vendere. Io pubblico invece i libri che mi piacciono”. È di fatto l’editore del nostro premier Mario Draghi. Ha pubblicato  una rarità fuori commercio. Si tratta del “Discorso per il Premio Cavour 2016” ricevuto da Draghi a Santena il 23 gennaio del 2017. Era già un programma di governo, un modo di guidare forze contrapposte alla maniera di Cavour che, scriveva Draghi, “realizzò i compromessi indispensabili ma mantenendo nell’essenziale la guida dell’iniziativa politica”.

  

Ieri, non era a Trieste che si capovolgeva lo stato ma a Torino che l’Italia si rimetteva in ordine. I “salonisti” se ne sono infischiati di chi diceva “andrà male” e hanno fatto bene. Il presidente emerito di questa repubblica (che non c’è) non può che essere l’editore di Draghi (mandiamo lui al Quirinale?) che ha una sua speciale filosofia: “Fortuna non ne faremo, tanto vale che ci divertiamo”. 

  

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  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio