Mondi diversi

Squid Game contro l'iniquità sociale. Ma qui la realtà è diversa

Stefano Pistolini

Il programma più visto della storia su Netflix è uno show per negazione: lo si detesta, ma non se ne può fare a meno

Una vita alla coreana? Uhm, no, grazie. Eppure adesso chiunque sia appassionato di serie tv e di relativi influssi sul costume, non parla d’altro: come capita nello show business si è realizzato l’imponderabile, ovvero “Squid Game”, serialità coreana costruita secondo un modulo narrativo consumato, in tre settimane si è trasformata nel programma più visto nella storia di Netflix, sbaragliando concorrenti ben più accreditati. Non solo: il 95 per cento degli spettatori della serie vive fuori dalla Corea del sud, disseminato in tutto il mondo, il che fa dello show un poderoso fenomeno globale (una moltitudine che assiste a episodi parlati in coreano con sottotitoli), mentre l’indotto consumistico sotto forma di merchandising e propagazione epidemica dei relativi trend, sta già invadendo il mercato e deflagrerà all’altezza di Natale. Il tutto diventa ancor più bizzarro poi, se ci si fa un giro sui social, in cerca dei riflessi di questa mania: quello che si coglie è che “Squid Game” è una serie – ma verrebbe da dire “un universo” – che il pubblico prevalentemente gode nell’odiare, nel liquidarlo con dispregio,  commentandolo acidamente come il progetto di menti perverse, allestito per un pubblico sempliciotto e assetato di violenza, sangue e fronteggiamenti palesi, secondo il solito schema heroes & villains, con la variante riscatto-redenzione.

 

In particolare al pubblico italiano, a prima vista, si direbbe che non la si faccia così facilmente, con una storia che estremizza il canone dei giochi di morte su cui hanno prosperato i vari “Hunger Games” o “Battle Royale” e che hanno ispirato le infinite declinazioni degli spettacoli di sopravvivenza e talento. Eppure lo si guarda ipnoticamente anche qui da noi, proprio per i suoi massimalismi e per le citazioni perfino ingenue: “Squid Games” dilata in nove episodi l’algida rappresentazione del massacro mutuata dai videogiochi “sparatutto”, secondo la filosofia (molto “gamer”) che tutto ciò che è superfluo lo si termina e lo si dimentica, laddove i concetti di morte e di eliminazione coincidono perfettamente. Proprio qui il dato “coreano” della rappresentazione apre dei varchi nell’emotività del pubblico occidentale, caduto in catalessi per una serie che a prima vista avrebbe potuto snobbare senza troppi scrupoli.

Perché alla base sia del meccanismo narrativo della storia – 456 persone in condizioni economiche terminali partecipano a una competizione basata sui passatempi dei bambini come il tiro alla fune o un-due-tre-stella, per vincere la montagna di quattrini che segnerebbe la loro rivincita. Chi perde, muore – come dell’estetica che la confeziona – un esagerato mix tra Willy Wonka, i manga futuribili e le visioni-Escher da negozio di souvenir – risiede un cinismo elementare al cui fascino è difficile resistere. Perché nella società coreana è un dato certo, mentre da noi è una consapevolezza più flebile, ma a tratti lampante: il denaro è il sangue della società, la innerva e la modifica, dividendoci tra chi ne ha, chi non ne ha, chi tenta di averne. Il resto è solo ipocrisia e noia. Ciascuno dovrebbe trovare la migliore collocazione possibile nella piramide e le opportunità per scalarla, senza fare prigionieri. Chi non gioca, è fuori: la regola c’è, ma è amorale. E questa serie tv, scritta nel lontano 2008 da Hwang Dong-hyuk, traccia con sardonica innocenza un’allegoria di questo stato di fatto, nel quale la violenza è lo strumento finale delle aspirazioni di avere ciò che non si è stati capaci di conquistare.

Una declinazione brutalmente televisiva dello stesso assunto col quale Bong Joon-ho ha vinto l’Oscar con “Parasite”, stavolta schematizzata nei dintorni del fumetto, colorata a tinte da shopping mall, popolata di figure da seguire subito sui social: mentre i meme dilagano, la modella Jung Ho-yeon, protagonista femminile della serie, accumula decine di milioni di follower su Instagram e l’oggettistica Squid, a cominciare dalla maglietta in quell’indefinibile punto di verde, è acquistabile online, provocando brividi di contemporaneità che nessun personaggio Marvel saprebbe solleticare. “Squid Game” diventa uno spettacolo praticamente per negazione: lo si detesta, ma non se ne riesce a fare a meno. Lo si bolla come superfluo, schematico, volgare, ma è difficile non ammettere che la sua banalità colpisce il bersaglio: nella degenerazione del capitalismo, nella brutalità della competizione e nelle ingiustizie sociali, le cose stanno più o meno così. Soltanto magari qui da noi un po’ meglio, perché questa, per fortuna, non è la Corea. 

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