Squid game, la serie tv splatter che spiega la Corea del sud meglio di un saggio

Giulia Pompili

È ufficialmente la più vista della storia di Netflix. Dopo "Parasite", un altro successo del soft power di Seul

Il soft power coreano raggiunge un altro, ennesimo record. Non solo ha guadagnato la seconda candidatura all’Oscar con il film “Escape from Mogadishu”, ma ha prodotto anche un fenomeno inedito nel settore delle serie tv, che probabilmente cambierà sia il nostro modo di guardare le serie sia la direzione degli investimenti dei produttori internazionali. In meno di venti giorni dalla sua pubblicazione globale su Netflix, e con un insignificante lancio pubblicitario, “Squid Game” è diventata la serie tv più vista in quasi ottanta paesi. E sta per diventare la serie più vista in assoluto sulla piattaforma, superando il patinato “Bridgerton”. I nove episodi scritti e diretti dal regista Hwang Dong-hyuk raccontano la vicenda di 456 persone che accettano di partecipare a un gioco mortale per avere la possibilità di vincere un premio da 40 milioni di dollari. Il gruppo viene trasportato su un’isola deserta, e ci sono sei diverse prove da superare, sei tradizionali giochi per bambini, da “un, due, tre, stella” al gioco del calamaro (ojingeo, una specie di campana tradizionale coreana) dal tiro alla fune alle biglie la regola è semplice: chi perde, muore

    

       

Instagrammabile come “La Casa di Carta”, con una musichetta identificativa e inquietante, ormai tutti parlano di “Squid Game”, e non solo in Asia. A Seul, per strada, sono tornati i venditori di dalgona, i dolcetti al sapore di mou protagonisti della terza puntata. E stanno aprendo locali a tema non solo in Corea, dov’è stata ricreata l’area gioco con i giganteschi scivoli e altalene, ma perfino a Parigi. 

   
I giornali internazionali da giorni cercano di spiegare la popolarità improvvisa e globale di una serie tv asiatica che – esattamente come il film premio Oscar “Parasite” – insiste molto su alcuni dettagli che hanno a che fare con la cultura sudcoreana. Ognuno suggerisce una risposta diversa, ma forse è un insieme di fattori che ha portato al successo di “Squid Game”. Il primo riguarda sicuramente la moda globale della produzione culturale coreana, un settore sul quale il governo di Moon Jae-in ha investito moltissimo. E che può contare su un megafono gigantesco sui social network: l’“armata” dei Bts, cioè i fan del gruppo musicale più famoso del mondo, che parlano ossessivamente su Twitter e TikTok di “Squid Game”. Il motivo è che la serie tv dei Bts, “Run Bts”,  ha già come tema centrale quello di superare alcune prove quasi infantili per raggiungere un montepremi. 

  
Ma i giochi per bambini, in Corea del sud, hanno anche un significato simbolico più profondo: in una delle società più competitive del mondo, avere successo nella vita quotidiana è davvero una lotta alla sopravvivenza. Quando il regista Hwang è stato accusato di aver scopiazzato qua e là la sceneggiatura di “Squid Game” (che effettivamente cita senza grossi indugi “The Hunger Games” e il manga “Kaiji”, oltre che il romanzo “Battle Royale” del giapponese Koushun Takami) lui stesso ha spiegato al Chosun ilbo: “La differenza è che gli altri lavori si concentrano sul gioco piuttosto che sulle persone, ma in ‘Squid Game’  non ci sono vincitori, eroi o geni. E’ una serie sui perdenti”. E infatti il gruppo protagonista della vicenda è guidato da un ex ristoratore dipendente dal gioco d’azzardo – i lavoratori autonomi sono il 24,6 per cento di tutti i posti di lavoro in Corea del sud, e la pandemia li ha massacrati – e dal suo amico di famiglia “laureato alla Seoul National University”, una frase ripetuta continuamente, come un mantra, perché entrare nella più prestigiosa università sudcoreana è il massimo dell’aspirazione per uno studente, nonché garanzia di intelligenza. Il soggetto in questione, però, giocava in Borsa e adesso ha milioni di debiti.

 

Al gruppo si uniscono poi un anziano signore affetto da demenza (simbolo, in Corea del sud, degli anziani lasciati soli e abbandonati quando non più produttivi) e da due “stranieri” a dir poco stereotipati: un immigrato pachistano, che parla un coreano claudicante ed eccessivamente rispettoso, e una rifugiata nordcoreana, che ruba ed è violenta e non si fida di nessuno, ma perché ha vissuto la violenza ed è stata truffata dai trafficanti di uomini sul confine con la Cina. Come per “Parasite”, anche “Squid Game” è un fenomeno globale di cui la Corea del sud va fiera ma che racconta in modo spietato, a volte perfino splatter, ogni singola stortura della società sudcoreana. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.