IL FOGLIO DEL WEEKEND

Byron in love: il soggiorno sfrenato del poeta in Laguna

Giuseppe Marcenaro

Donne, scandali e tradimenti. Il libertino e dissoluto soggiorno del Lord inglese a Venezia, tutto documentato nelle sue lettere

Quando vi approdò il 10 novembre 1816 aveva ventotto anni. Venezia per lui fu una “gloriosa” fuga dopo anni di iperpasticci umani, sociali, amorosi, erotici. George Gordon Byron si era consentito il consentibile. Intanto una relazione con l’eccentrica Caroline Lamb, la dama più in voga del momento, che avrebbe definito Byron “pazzo, cattivo e pericoloso da frequentare”. Mentre si “intratteneva” con la Lamb, divenne intimo della sorellastra Augusta (figlia di suo padre e della  sua prima moglie, e già sposata con George Leigh, cugino materno di primo grado) con la quale ebbe un’intensa relazione. Nell’aprile del 1814  dall’incestuoso rapporto nacque Medora Leigh, battezzata con il cognome del marito di Augusta.


Per depistare i pettegolezzi cresciuti attorno allo scandalo “familiare”, il 2 gennaio 1815 Byron sposò Anne Isabella Milbanke, detta Annabella, un’ereditiera colta con la quale andò ad abitare a Londra. Dall’unione, naufragata ben presto, Byron si attendeva una duratura sistemazione sociale e il risanamento dei debiti ereditati dal prozio. Nel dicembre del 1815 nacque una figlia, Ada. Ma le vicende coniugali, già tempestose, naufragarono allorché Byron riprese i rapporti con la sorella Augusta e nel contempo la mai abbandonata pratica di frequentare intimamente giovani uomini, vivendo in maniera esplicita la propria bisessualità. Annabella abbandonò il tetto coniugale e inoltrò la richiesta di separazione: Byron accusato di incesto, adulterio, omosessualità, sodomia, e altro ancora. Sulla rivista Athenaeum venne resa pubblica un’affettuosa amicizia collegiale con John Edleston: Byron “di temperamento più o meno omosessuale era un idealistico romantico ed ellenico, greco nella sua natura intellettuale ed erotica, inglese per nascita ma ateniese nel cuore”. I giudizi su di lui degenerarono. Tra gli scandali affiorò anche il rapporto con Claire Clairmont, sorellastra di Mary Godwin Wollstonecraft, futura moglie di Percy Bysshe Shelley. Con Claire, Byron proseguirà nella relazione iniziata già a Londra qualche mese avanti. Era una tempestosa storia che, nel gennaio 1817, generò una figlia, Allegra. 

Al suo banchiere Douglas Kinnaird scriveva per cercare di sistemare i propri conti vendendo proprietà in Inghilterra, per poi abbandonarsi a dichiarazioni di un esibito cinico vampirismo, venate di cupe revanche, tipiche di un goloso divoratore di esistenze. “Mi dici che la moglie di Shelley si è annegata – diavolo – intendi sua moglie o la sua amante? Mary Godwin? Spero non la seconda. Mi spiace molto apprendere qualsiasi cosa che tormenti il povero Shelley – e poi sono inquieto per un’altra del suo ménage. La conosci – una volta l’hai anche vista – quella ragazza stravagante, è venuta da me poco prima che lasciassi l’Inghilterra, ma non sei a conoscenza che l’ho trovata con Shelley & sua sorella a Ginevra. Non l’ho mai amata né finto di amarla, però un uomo è un uomo e se una ragazza di diciott’anni continua a saltarti addosso, non c’è che un modo, il risultato è che è rimasta incinta ed è tornata in Inghilterra per contribuire a popolare quell’isola desolata. [...] Così vuoi che venga in Inghilterra. Perché? per cosa? I miei affari vorrei poterli sistemare evitandolo – ripeto, il tuo paese per me non è il mio. Non ho l’ambizione né il gusto per la politica, e non c’è altro da voi che non sia migliore altrove. Inoltre Caroline Lamb & Lady B[yron] [...] hanno distrutto il mio esistere morale tra voi e non ne posso più di essere il tema delle loro invenzioni reciproche. Tra dieci anni potrei aver anche disimparato l’inglese… Ma adesso non ho più tempo né spazio per ulteriori tirate”. Per liberarsi dall’ondata di deprecazioni, il 21 aprile 1816 l’inquieto lord aveva firmato il documento di separazione dalla moglie. Abbandonò l’Inghilterra, dove non avrebbe fatto mai più ritorno.

Il primo paese  che visitò fu il Belgio: dopo aver fatto una rapida sosta a Bruxelles, fece tappa a Waterloo e da qui costeggiò la riva del Reno sino a giungere a Ginevra. Il poeta si insediò, insieme al fedele domestico William Fletcher e al medico John Polidori, nell’elegante Villa Diodati, già residenza di Milton. In una villa non molto distante, a Montalègre, soggiornavano gli Shelley. Occasionalmente, Byron frequentò anche il salotto di Madame de Staël al castello di Coppet. Attraversate le Alpi, sostò nell’ottobre del 1816 a Milano dove incontrò Confalonieri, Monti, Pellico… e in un palco della Scala, presentatogli da Lodovico Di Breme, conobbe Stendhal. Poi si spinse fino a Venezia, dove arrivò il 10 novembre 1816. 

Sembrava che la città della laguna fosse una tappa di poco tempo. Si fermò tre anni, dedicandosi principalmente a una esistenza di scatenata vitalità sessuale. Che lui stesso testimonia nelle lettere  scritte in quel periodo, non rinunciando all’arte del pettegolezzo sulla vita di amici e conoscenti. Intanto scrive di sé, facendosi vanto delle sue prodezze amatorie. Con esibita complicità il 17 novembre 1816, proprio una settimana dopo il suo insediamento, relaziona a Thomas Moore, un amico poeta, commediografo e attore irlandese, ricordato soprattutto per la ballata popolare The Minstrel Boy, per la poesia The Last Rose of Summer e la raccolta delle sue melodie: “Inoltre mi sono innamorato, il che, oltre a cadere in canale (inutile, perché so nuotare), è la cosa migliore o peggiore che potessi fare. Ho affittato alcune stanze molto belle nella casa di un ‘Mercante di Venezia’, molto occupato con gli affari, e con una moglie di ventidue anni. Marianna (si chiama così) somiglia d’aspetto a un’antilope. Ha occhi grandi, neri, orientali, con l’espressione particolare e rara fra le europee – italiane comprese – che molte donne turche si danno tingendosi le palpebre – arte sconosciuta, credo, fuori dalla Turchia. Quell’espressione lei la possiede di natura, e qualcosa in più. [...] I suoi tratti sono comuni, e direi aquilini – bocca piccola – pelle chiara e morbida, tono d’incarnato quasi febbrile – fronte notevole: I capelli hanno la lucentezza bruna, le onde e il colore di quelli di Lady J[ersey]: ha una figura leggera e graziosa e canta bene, scientificamente: la sua voce naturale (mentre parla, intendo) è dolcissima: e la spontaneità del dialetto veneziano è sempre amabile sulle labbra di una donna”.

E’ questa una lettera che fa parte del fascetto di missive di Byron da Venezia, scritte tra il 1816 e il 1819, riproposte in nuova traduzione e pubblicate a cura di Paola Tonussi, edite da De Piante sotto il titolo “L’amante scatenato, lettere veneziane 1816-1819”, con prefazione di Giuseppe Scaraffia. Per poter più agevolmente godere e cogliere il dessus de cartes delle missive byroniane, tuttavia, in questa edizione quasi casuale, presentate come sono “nude e crude”, per svelarne gli interstizi “segreti” e corroborare la più che naturale curiosità che sorge esplorandole, ci si può valere di uno splendido volume biografico “L’estate di un ghiro, Il mito di Lord Byron attraverso la vita, I viaggi, gli amori, le opere” dovuto a Vincenzo Patanè vero e autentico conoscitore della vita e dei “miracoli” dello spericolato lord. Per malati di voyerismo e insane curiosità stupefacente svelamento il capitolo “Sesso sfrenato. Venezia”.  


Proviamo perciò, con l’ausilio delle informazioni fornite da Patanè a mettere qualche nota a piè di pagina allo scarno libretto delle missive edizione De Piante. E a sviluppare un poco le malizie alluse o spiatellate da Byron nelle “confessioni chiacchierate”, ad amici e conoscenti, dalla città lagunare. Tre anni di prodezze ed eccessi vissuti in una esasperata dissolutezza che “comportarono anche quell’impressionante degrado fisico dal quale in seguito Byron faticò a uscire”.  


A Venezia l’inquieto lord era arrivato assieme al suo grande amico John Cam Hobhouse, primo barone di Broughton e futuro ministro del Regno Unito. Hobhouse, testimone di nozze di Byron, nel 1816, gli era stato vicino dopo la separazione dalla moglie, a seguito della quale era stato praticamente obbligato all’esilio. Prima di approdare a Venezia, avevano compiuto un lungo viaggio in Svizzera e in Italia. L’occasione del viaggio consentì a Hobhouse di “vivere”, in un certo senso, il quarto canto del “Childe Harold’s Pilgrimage” a lui dedicato. 
Byron e Hobhouse presero alloggio al Gran Bretagne, un elegante hotel affacciato sul Canal Grande.  Con loro era ovviamente William Fletcher, che Byron aveva assunto nel 1808 come stalliere e poi promosso a valletto. Fletcher era prestante, d’aspetto gradevole, “con biondi capelli” come Byron lo descriveva in una lettera a Shelley. Non è escluso che Byron, con forte tendenza alla bisessualità, abbia avuto rapporti intimi con il suo valletto, il quale, fedelissimo e leale, era di una discrezione esemplare anche quando il suo padrone lo coinvolgeva in scherzi spesso di natura erotica. 


A Venezia Byron si dedicò tuttavia quotidianamente, così affiora dalle lettere, a praticare il sesso con ogni femmina gli capitasse a tiro. Dopo qualche giorno dal suo arrivo si era stabilito, vicino alla centralissima Frezzeria, in un appartamento di proprietà del tappezziere e mercante di panni Pietro Segati, il quale gli aveva affittato l’alloggio sito al piano sopra del suo. La bottega aveva un’insegna “Al Cervo”. Da lì a poco circolò la malignità del negozio del “corno inglese”. Perché a Byron non era servito molto per prendersi come amante proprio la moglie del padrone di casa: Marianna Segati, una delle sue due più lunghe relazioni veneziane. L’altra era Margherita Cogni, detta “la Fornarina”. Ed è proprio dell’innamoramento per Marianna che Byron scrive nella prima lettera da Venezia a Thomas Moore. Gli ci erano voluti pochi giorni per dare il via alla grande giostra erotica veneziana la cui rappresentazione viene “esibita” nelle lettere simili a pieces boulevardieres: “Dì a lord Kinnaird che la dama di cui Vendiamini non lo ha voluto presentare. Io l’ho fottuta due volte al giorno per gli ultimi sei – oggi è il settimo – ma niente riposo festivo perché ci troviamo a mezzanotte dalla sua modista. E’ la più graziosa baccante del mondo, e vale la pena morirci dentro. Ho un mondo di altre puttane, oltre che un’offerta della figlia dell’Arlecchino del teatro di San Luca, così che ho le mani piene, comunque possano essere i miei vasi seminali”.

 

Dopo una parentesi estiva, nel 1817, andò ad abitare a Villa Foscarini e nel maggio 1818 si traferì nel prestigioso palazzo Mocenigo sul Canal Grande. “Venezia mi piace quanto mi aspettavo – e mi aspettavo molto. E’ tra i luoghi che conoscevo prima ancora di vederli, e che più mi hanno suggestionato [...]. Amo la cupa allegria delle sue gondole e il silenzio dei canali […]. Poi il Carnevale sta arrivando, San Marco e in realtà tutta Venezia sono pieni di vita di notte. I teatri non aprono prima delle nove e la società tarda di pari passo – tutto ciò è di mio gusto – ma la maggior parte dei vostri concittadini sente la mancanza e rimpiange lo sferragliare delle carrozze di piazza, senza le quali non riescono a dormire. Ho la mia gondola, leggo un poco, e per fortuna da tempo ho imparato a parlare italiano (con più fluidità che correttezza); per mia curiosità studio il dialetto veneziano, che è molto spontaneo, dolce e particolare [...]. Esco molto spesso e sono piuttosto soddisfatto. L’Elena di Canova (un busto in casa della Signora contessa d’Albrizzi che conosco) per me è senza eccezioni la bellezza più perfetta per concezione, e che di molto sopravanza ogni mia idea di esecuzione umana [...]. Non vedo mai i giornali e non so niente dell’Inghilterra”.

 

Byron a Venezia ha vissuto intensamente dispensando con la sua impagabile energia la vita cittadina, che si appassionò alle sue avventure. Le sue giornate erano illusoriamente scandite da ritmi rigorosi: l’apprendimento dell’armeno nell’isola di San Lazzaro degli armeni (che raggiungeva in gondola e che gli offriva un grande senso di pace). Naturalmente privilegiati gli incontri galanti, il nuoto, le cavalcate al Lido e poi – dopo gli inevitabili riti del teatro e dei rapporti sociali – la scrittura, complice anche l’insonnia. Nonostante la flemma della città, quegli anni furono vissuti da Byron in maniera esasperata, fra dissolutezze ed eccessi. Non ci volle molto che le sue avventure amorose e la sua vita frenetica vissuta con una certa teatralità, diventasse di dominio pubblico. Tutti, a cominciare dai ragazzini, erano curiosi di vedere “l’inglese pazzo”. I gondolieri diffondevano notizie su di lui, ingigantite ad arte, specie per i turisti  avidi di conoscere le novità sulle ultime imprese del reprobo lord. A un certo punto dovette aver deciso di trasformarsi – “madamina il catalogo è questo” – nel Leporello di sé medesimo affinché le sua “scopate” diventassero leggenda.

 

Finge in una lettera di lamentarsi dei pettegolezzi che lo riguardano, mentre esibisce il suo medagliere: “Venezia, 19 gennaio 1919, a John Cam Hobhouse e Douglas Kinnaird: E così Lauderdale è andato a divulgare una delle mie storie! Suppongo sia la ricompensa per averlo introdotto nel salotto della Contessa Benzone e averlo accompagnato, con tutta l’attenzione dovuta. A quale episodio si riferisce? Dato che da un anno sono sottoposto alle Forche caudine; è la Tarruscelli, la Da Mosti, la Spineda, la Lotti, la Rizzato, l’Eleanora, la Carlotta, la Giulietta, la Alvisi, la Zambieri, l’Eleonora da Bezzi  (che è stata l’amante del re di Napoli Gioacchino, o almeno una di esse), la Teresina di Mazzurati, la Glettenheimer e sua sorella, la Luigia e sua madre, la Fornaretta, la Santa, la Caligari, la Portiera [vedova?], la Bolognese figurante, la Tentora e sua sorella, cum multis aliis? Alcune di loro sono contesse e altre mogli di ciabattini, alcune nobili, alcune borghesi, alcune di basso ceto e tutte puttane: a chi si riferisce quel dannato vecchio ladro e porco fottuto? Le ho avute tutte e ne ho avuto tre volte tante, per sovrappiù, a partire dal 1817”.

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