Foto Jiachen Lin via Unsplash 

Dal rugby non ci si separa mai...

Marco Pastonesi

...nemmeno sotto l'ombrellone. Alcuni consigli ovali per finire questo agosto con un buon libro in mano

Nel rugby vince chi se lo merita. Sul campo, nello spogliatoio, in tribuna, sul pullman, ai fornelli, alla lavatrice, anche al pronto soccorso. Nel rugby vince chi capisce lo spirito del gioco, la filosofia delle regole, la religione dei comandamenti. Nel rugby vince chi continua a essere un rugbista anche nella vita.

Lo romanza Roberto Zambon in “Vero cuoio” (Ultra, 220 pagine, 16,50 euro). “Quando siete nudi – ringhia Mauro, l’allenatore del piemontese Santo Stefano, squadra di serie C – vi guardate sotto le palle e vedete cosa sta scritto. Se leggete made in Cina... tzé, non va bene. Sotto le palle ci deve stare scritto vero cuoio, perché allora vuol dire che siete rugbisti seri”. Più romantico sarà Mirco, nell’articolo d’addio scritto per le pagine locali di un quotidiano: “Ho corso per portare una palla in fondo a un campo fino a non sentire più le gambe. Sono caduto e ho mangiato la terra. Ho creduto di morire schiacciato dal peso dei miei compagni. Mi sono aggrappato all’erba come ai capelli di una donna. Ho scoperto il significato della parola dolore. Ho visto persone tirarsi indietro e altre gettarsi nella mischia con la stessa naturalezza. Sono finito dentro una pozza di acqua ghiacciata e per rialzarmi ho infilato le mani nel fango, ed era solo il primo minuto...”. Fino a confessare: “Ho schiacciato in meta e in questo gesto perfetto ho intravisto Dio”.

 

Lo testimonia Maurizio Bocconcelli in “Il mio rugby” (Rugby 2000 Promotions, 134 pagine, prezzo non indicato). Da giocatore a dirigente, da presidente di società a consigliere federale, da arbitro a veterano, da padre a nonno di giocatori, perché dal mondo ovale non ci si separa, non ci si stacca, non ci si allontana mai. Rugby Roma, l’esordio nel 1960, poi un’epopea di ricordi e storie. Quel Vittorio Zaccaria cui “una perfida diceria attribuiva la frase rivolta a un compagno: ‘Che fai, me passi la palla? Io so’ tallonatore’”. Quel Renzo Matteucci che, dopo una partita con L’Aquila, dalle borse estrasse gonfiabile e pagaia e ai compagni annunciò: “Voi tornate in pullman, io me la faccio in canoa”, tragitto lungo i fiumi Velino, Nera e Tevere, durata 26 ore. Quel Silvano Tartaglini che il sabato, intorno alle 12, alla porta dell’ufficio Inps in cui lavorava, esponeva il cartello “Torno subito” e poi fuggiva in trasferta con la squadra. Quella partita con il Rovigo in cui “non ci siamo spostati dallo 0-0 iniziale e il pareggio finale mi ha dato un’emozione e un orgoglio che non dimenticherò più”. Quella partita con il Llanelli e il fuoriclasse Barry John, “l’uomo che camminava sulle acque” che, dopo la vittoria per 9-3, al banchetto sentenziò: “Italians very good players”. Quella volta in cui due volanti della squadra mobile di L’Aquila avevano acciuffato il pullman del Cus Roma, su cui viaggiavano reperti garibaldini prelevati furtivamente in un ristorante di Coppito.

E lo racconta Gigetto Fusco in “Chiamatemi Elio” (De Frede Editore, 464 pagine, 22,50 euro). Elio era suo padre, mediano di mischia e allenatore della Partenope Napoli, geniale e spregiudicato. Come quando guidava l’Italia (quasi) al successo con la Francia (“Negli spogliatoi piangevamo tutti. Avevamo assaporato una vittoria storica, e invece a tempo quasi scaduto...”), come quando galvanizzava i compagni (una volta spacciò un napoletano per turco, lo ribattezzò Turkisch e lo convinse a entrare in campo a torso nudo con una corda al collo a mo’ di guinzaglio per sottolinearne la ferocia), come quando si tuffava in meta (ma a Bucarest, contro la Romania, davanti a 80 mila spettatori urlanti – e chi li aveva mai visti e sentiti -, confuse la linea di meta con quella dei 22), come quando giocava a carte (non sempre vincente: il padre aveva assicurato un quadro alla parete con catena e lucchetto “altrimenti Elio si vendeva anche questo!”), come quando troncava confronti ed esami (troncando anche la propria carriera di c.t. della Nazionale) perché bocciava l’interlocutore con il definitivo “chill è ‘na chiavica!”.

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