“Guai allo scrittore che non si schifa del suo mestiere”.

Marco Archetti

La noia dell’adesione alla realtà mentre la realtà accade

"Stefano Pirandello aveva le sue idee in materia di noia. La riteneva propizia alla creazione artistica, perché solo in quella condizione – sosteneva – potevano “vaporare idee e fantasmi”. Ovviamente faceva di tutto per condurre una vita adeguata alle sue convinzioni, con grande disappunto del padre, il quale riteneva che della noia si potesse benissimo fare a meno, e che i vapori uno li esala se li sa esalare, indipendentemente da tutto. 


Ora, a esser sinceri, Pirandello senior – più noto come Luigi – arrivò a questa conclusione solo dopo i cinquant’anni, e non prima, non in gioventù, quando anche per lui la principale attrattiva era rappresentata dallo star chiuso in una stanza per dar corpo alle proprie essudazioni fantasmatiche, sentendo gravare su di sé l’arcinoto peso che tocca in sorte allo scrittore, che – ricordiamo – è sempre uno che sa quel che fa mentre lo fa, subito dopo non più, e tempo una settimana ha la pistola alla tempia. Un aneddoto significativo è contenuto nel terzo articolo (di quattro apparsi su “Occidente” e “Illustrazione italiana” tra gennaio 1933 e settembre 1935) che costituisce questo utilissimo “Non parlo di me” (Ibis, 70 pp., euro 7). Utilissimo perché, a dispetto del titolo, Luigi Pirandello offre l’anatomia spirituale di uno scrittore che riflette su se stesso, su come è nato e su come è cambiato, senza le caratteristiche mefitiche del periplo ombelicale. Al contrario, pagina dopo pagina si sente crescere lo spessore di una storia: quella delle domande che uno scrittore è stato capace di farsi per diventare tale – si tratta, in poche parole, dell’autobiografia brevissima di un ingegno che ha determinato se stesso in forma interrogativa. L’aneddoto vede Pirandello in navigazione sulla Biancamano, di ritorno da Buenos Aires dove, al teatro Odeon, aveva avuto luogo la prima della commedia “Quando si è qualcuno”. Traversata noiosissima, bonaccia, “nemmeno un po’ di interessamento ai nostri casi da parte del tempo. Estranei e ignorati, passavamo in mezzo a un silenzio che non era per noi: un silenzio di cose”. Dopo quattordici giorni di nulla, le lenti del binocolo inquadrano finalmente Genova, e il teatro in cui lo stesso Pirandello avrebbe presenziato per il debutto italiano della pièce. “Col binocolo avevo visto il teatro, come se potessi entrarci. Perciò, appena sbarcato, volevo ripartire subito. Sembro brusco e irragionevole, me ne rendo conto”, scrive Pirandello. 


Ma è tutto giusto, tutto inevitabile: quella fretta, quella smania, quella voglia di correre. Dove? Altrove! Perché uno scrittore vive di questo, e la condizione per esserci – la condizione per raccontarla – non è quasi mai viverla, ma il contrario esatto: è non entrare in quel teatro, vederne la soglia, immaginarne l’interno e, con tutte le forze (o chissà, schiavo di altre forze) voler essere già via, a rincorrere la propria fame chiamandola col nome della vita stessa. Uno scrittore è dentro e fuori per sempre, immerso nel senso di definitivo che avverte in ogni atto della vita, ma per collocarsi dove? Più in basso? Più in alto della vita? Dove si trova, esattamente, uno scrittore? Pirandello non lo dice. Ma ci racconta la noia dell’adesione alla realtà, mentre la realtà accade. Poi però scrive: “Guai allo scrittore che a un certo punto non si schifa del suo mestiere” (ritagliare e incorniciare, qui è tutto un delirio di scriventi che su Twitter miagolano la fatica apocalittica del parto letterario, vestendo di epica da scampati le proprie fatiche generative di un ennesimo e autococcolatissimo Nulla Di Che).


Caduto in pieno nella trappola della letteratura, Pirandello ritrae la condizione incollocabile di chi scrive. E ci svela il teatro raccontando le quinte, il luogo in cui si lotta contro se stessi per andare incontro agli altri. Una grande elegia per il proprio mestiere cantata in quattro atti non previsti, e con pudore, da un uomo che alla fine ammette: “Preferisco sognare che vedere. Quasi tutto ciò che vedo mi respinge”.
 

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