Il regista Sergio Martino, il 19 luglio compirà 83 anni

facce dispari

Sergio Martino, l'anti-Potëmkin di Quentin Tarantino

Francesco Palmieri

Le 66 pellicole spaziando dal western alla commedia sexy, il cinema "di genere" che sapeva parlare al mondo. Le serate con la Carrà ("cucinava una pasta al pomodoro straordinaria"). Chiacchierata con il regista che ha ispirato Tarantino (e non solo)

Magari i più non vi biasimeranno, se nella vostra filmografia mancano ‘Lo strano vizio della signora Wardh’ e ‘I corpi presentano tracce di violenza carnale’. Sappiate tuttavia che sono le due sole pellicole italiane in proiezione, questo luglio, al New Beverly, lo storico cinema di Los Angeles del quale Quentin Tarantino è proprietario (“finché sarò ricco”, promise). Entrambe, del ’71 e del ’73, portano la firma di Sergio Martino, il regista che Tarantino laureò tra i suoi maestri ispiratori nella retrospettiva veneziana del 2004 dedicata al cinema di genere italiano. Assieme a Castellari, Di Leo, Lenzi, Margheriti, Sollima e compagnia bella, insomma gli sgraditi a certa ortodossa critica nostrana (la stessa che già massacrò Totò e negava il trenta e lode a ‘La strada’ di Fellini, malgrado la certificassero quale capolavoro francesi e americani).

A 83 anni, che compie il 19 luglio prossimo, Martino ribadisce l’intenzione di non girare più perché, sostiene, “quello del regista non è un mestiere per vecchi”. Intanto ha incassato la soddisfazione di vedere rimandato in tv, l’8 luglio scorso, il suo ‘L’allenatore nel pallone’, e anche la gioia – lui laziale di ferro – di Ciro Immobile che ha festeggiato agli Europei il gol con la Turchia al grido di “Porca puttena!”. In omaggio all’Oronzo Canà di Lino Banfi. Martino pensava di aver detto tutto nell’autobiografia ‘Mille peccati… nessuna virtù?’ del 2017, invece ne ha da raccontare ancora in questa intervista bella, speriamo, e malinconica e sorridente.

 

Quanto la inorgoglisce stare in cartellone al New Beverly Cinema con due titoli usciti mezzo secolo fa?

Può immaginarlo. Ma se è per questo, sembra che i miei film si vendano tuttora più di molti altri titoli italiani recenti.

Come lo spiega?

La differenza con la mia generazione è che oggi, i film, italiani lo sono un po’ troppo: raccontano una realtà che può interessare noi, ma difficilmente il pubblico internazionale. Invece con il cinema di genere, di cui fu antesignano e fra i maggiori produttori mio fratello Luciano, ci collocavamo al secondo posto nel mondo, perché era il mondo, che raccontavamo. Non dico delle commedie, ma i western, per esempio, i thriller o i cosiddetti “sandaloni” avevano una dimensione internazionale. Io alcuni titoli neanche li ambientavo in Italia. Giravamo spesso all’estero, anche nei posti più esotici.

C’è oggi qualche cineasta che segue le vostre tracce?

Tra quelli attivi adesso mi viene il nome di Gabriele Mainetti: trovo che ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’ sia sulla nostra falsariga.

La vostra fu una vera “industria” cinematografica.

Lo credo: producevamo 350 film all’anno. Quel cinema, disprezzato da parecchi critici come di serie b, è stato riabilitato grazie a Tarantino, ma anche a diversi registi inglesi e francesi. Che il nostro fosse un prodotto gradito in tutto il mondo me lo riconobbero anche quando m’invitarono all’Académie Française. Poi persino la critica italiana ha dovuto ammettere, sebbene a denti stretti, che avevamo qualche virtù. Ma quante ne aveva dette…

Ne ricorda qualcosa?

Quando feci ‘Milano trema: la polizia vuole giustizia’, la critica più favorevole, se vogliamo definirla così, fu di Oreste Del Buono, il quale ammise che la sala era gremita malgrado il film fosse uscito subito dopo Ferragosto. Segno, scrisse sul Giorno, che i milanesi erano tornati dalla villeggiatura.

Oltre a Tarantino, lei annovera tra gli ammiratori Eli Roth, Guillermo del Toro…

Del Toro mi ha voluto ringraziare spiegandomi che l’ispirazione di ‘La forma dell’acqua’, poetica storia d’amore fra una donna muta e un uomo pesce, che ha preso quattro Oscar nel 2018 e il Leone d’oro, gli era venuta vedendo il mio film ‘L’isola degli uomini pesce’ del ’79. Pensi che grazie al solo bozzettone dell’uomo pesce, realizzato da Antonello Geleng, il nostro venditore all’estero del film incassò prenotazioni per un miliardo di lire di allora. 

 

 

Gialli, western, thriller, 007 all’italiana, cannibal, la cosiddetta commedia sexy. Lei ha praticato tutti i generi.

Per un totale, da regista, di 66 film e 22 serie televisive. Con tutte quelle pellicole si potrebbe cingere tre volte il mondo… All’epoca, avevamo l’obbligo contrattuale di non consumare più di una determinata quantità di pellicola: io ne impiegavo almeno 30 mila metri, ossia 30 chilometri a film, perché ho utilizzato sempre due macchine da presa. Ma un Antonioni forse arrivava a 100 mila. Mi sono sempre rammaricato quando dovevo sacrificare un bel dettaglio per tagliare una sequenza lunga. Monicelli invece, che era bravissimo ma anche assai cinico, non s’importava molto di una immagine saltata. Diceva: che te ne frega, penseranno a un errore del proiezionista. Per lui veniva prima il ritmo.

Come conciliavate la ristrettezza dei budget con la competitività dei film?

Non ho mai diretto una pellicola del tipo “vorrei ma non posso”. Le mie erano a basso costo ma non povere. Prima della post-produzione al computer e della digitalizzazione, ce la battevamo con gli americani anche sugli effetti speciali. Era un cinema pieno di adrenalina: se un’auto si schiantava contro un albero lo faceva davvero. Ricordo l’ansia quando girammo gli inseguimenti per ‘Milano trema’ senza avere completamente bloccato al traffico le strade… Sì, era un cinema temerario. Però è giusto che adesso le norme di sicurezza siano molto più stringenti.

Quanto duravano le riprese?

Da quattro a otto settimane.

Mai in presa diretta.

No, all’epoca c’era il doppiaggio, sia per far prima sia perché il silenzio assoluto su un set italiano era un’utopia. E poi il santo doppiaggio finale aggiustava tutto, assieme alla capacità del regista di adattare le sceneggiature che non erano quasi mai come quelle americane, tecnicamente già pronte per essere girate. Certo, quei doppiaggi a risentirli adesso sembrano stereotipati, le voci sono convenzionali, ma hanno una loro bellezza: tutte di stomaco, intonate. C’erano grandi doppiatori, alcuni dei quali erano veri attori senza il fisico da protagonista. Come Pino Locchi, che prestava la voce ai James Bond di Sean Connery.

 

Sergio Martino con Ursula Andress durante le riprese del film "Spogliamoci così, senza pudor..."(foto LaPresse) 

 

Com’era il suo rapporto con gli attori?

Buono quasi con tutti. Sui miei set ci sarà stata qualche tensione con chi si sentiva un po’ troppo divo, ma mai uno screzio clamoroso. Proprio nel cuore porto Claudio Cassinelli, Lino Banfi, Edwige Fenech…

… che fu a lungo compagna di suo fratello. Come la scoprì? ‘Giovannona Coscialunga disonorata con onore’ è una commedia di culto che, a dispetto del titolo, era ben lontana dalla pornografia. Una ’Pretty Woman’ all’italiana, che entrò subito nell’immaginario pop quando Fantozzi la contrappose alla monumentale e mesta ‘Corazzata Potëmkin’. Da lì la Fenech divenne l’icona di una generazione.

Vidi Edwige per la prima volta in una sala di doppiaggio dove andava a trovare un suo amico, un attore americano, mentre io lavoravo alle integrazioni di un film di cui non sarei stato il regista. La sua prima esperienza fu ‘Lo strano vizio della signora Wardh’, che era un thriller, ma poi diventò bravissima nelle commedie. Era un personaggio così solare che il suo successo presso il pubblico s’intuì da subito.

Una pagina triste riguarda invece Cassinelli, che morì nel 1985 su un suo set, ‘Vendetta dal futuro’, in un incidente di elicottero.

Giravamo nel Glen Canyon in Arizona, in un caldo bestiale, vicino al Colorado River. Ricordo che nella camera del motel ti potevi ritrovare gli scorpioni nelle pantofole. La tragedia fu determinata dallo spirito avventuristico di Cassinelli, che voleva a tutti i costi raccontare al figlio di essere passato con l’elicottero sotto il Glen Canyon Dam Bridge. Gli dissi di non farlo, lui insisteva e io ripetevo di no. Alla quinta volta che me lo chiese cedetti. Quel “sì” è stato e resterà un mio tremendo rimorso.

Non le manca il set?

Quello del regista non è un lavoro per vecchi, è faticoso, almeno come lo facevo io che non mi sedevo nella roulotte con l’aria condizionata, ma stavo dietro la macchina da presa e spesso suggerivo le battute agli attori. All’epoca non avevamo i monitor e ti accorgevi di un errore solo andando in proiezione. C’erano per fortuna segretarie di edizione eccezionali, che non sbagliavano quasi niente: annotavano tutto sulle pagine bianche previste apposta nei copioni e con gli scatti Polaroid. Mando ancora un plauso, e voglio ricordare i nomi, di Annamaria Montanari e Mirella Malatesta. Certo che mi manca l’atmosfera del set, che tra noi era quasi goliardica anche quando giravamo i gialli. Tra un ciak e l’altro ci scherzavamo su, non ci prendevamo troppo sul serio. Con grande umanità. 

 

 

Un rimorso lo ha raccontato. E un rimpianto?

Ho tolto molto tempo alla mia famiglia lavorando nel cinema. Ma oggi mia figlia Federica è un’ottima regista e la seconda, Francesca, un’ottima fotografa anche se deve conciliare il lavoro con la cura dei figli. Sono veramente grato a mia moglie Mariolina, una persona eccezionale che per più di cinquant’anni mi è rimasta accanto. Era una professoressa di inglese e quando andò in pensione si dedicò ai bambini da presidente di un’associazione oncologica pediatrica. Il Covid se l’è portata via, mi sono ammalato anch’io e l’ho scampata dopo un mese di ospedale: un’esperienza di spaventosa solitudine. Anche se al Policlinico Gemelli mi assistevano bene, sapesse quanto desideravo un bicchier d’acqua o cambiare canale alla tv, perché non c’era il telecomando. Gli infermieri e i medici dovevano bardarsi come astronauti per entrare in stanza, perciò le attese erano molto lunghe. Forse il Covid mi ha tolto anche la voglia di fare.

Fra le tristezze recenti, la scomparsa di Raffaella Carrà, di cui lei fu regista e poi amico.

La diressi nella serie ‘Mamma per caso’ per Rai Uno, nel ’97, una coproduzione con la Spagna. Diventammo amici perché era una brava attrice ma anche una donna dolcissima e ci vedevamo spesso con mia moglie, sia a Roma sia all’Argentario, a casa nostra o sua per giocare a burraco. Lei e la cugina erano bravissime ma ci sfidavamo per divertimento, mai con i soldi. Raffaella cucinava una pasta al pomodoro straordinaria e una volta, conoscendo la mia fede calcistica, mi fece la sorpresa di invitare Bobo Vieri che giocava quella stagione nella Lazio. Però la sua presenza fu controbilanciata da quella del romanista Antonello Venditti… Qualche mese fa telefonai a Raffaella e non volli dirle nulla di mia moglie, ma non sentii la sua solita voce giovanile, esplosiva. M’impressionò per il tono spento. Solo dopo ho capito che era già malata.

 

Come passerà l’estate?

Agosto mi è sempre piaciuto trascorrerlo a Roma. La città è più accettabile, si può parcheggiare la macchina come negli anni ’50, insomma ogni agosto è una sorta di amarcord. Sembra ieri che andavamo sulla terrazza del Pincio per conoscere qualche bella ragazza. Quello era un posto magico almeno per me, che ho fatto le scuole al San Giuseppe a piazza di Spagna. Ma poi, quando s’avvicina il mio compleanno, riaffiora un ricordo ancora precedente: proprio il 19 luglio ci fu il bombardamento del ’43. Noi abitavamo a Roma nord e quel giorno avevo la febbre. Al suono delle sirene i miei genitori mi avvolsero in una coperta e scappammo nel ricovero con mio fratello. Sentivo i sibili delle bombe che cadevano, ma mio padre aveva portato giù la torta di compleanno, ci mise su le cinque candeline e mi fece soffiare. In quel momento scomparvero i rumori della guerra.

Lei ha scritto: “Il cinema è un mestiere semplice, reso difficile dalle persone che lo fanno”. Perché  lo scelse?

Per sentirmi sempre ragazzo.

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