Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo in città , 1338-1340, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena (da Wikipedia)

Realismo, ma con la voglia di cambiare le cose: il giusto mix dell'uomo politico

Sergio Belardinelli

I limiti della propria natura e il sogno di una società nuova. L'equilibrio nella tradizione costituzionalista liberale e democratica

Specialmente nell’ambito delle relazioni internazionali, la politica moderna e contemporanea potrebbe essere raccontata guardando a due concetti, due “idealtipi”, fra loro antitetici: quello di utopia, del quale conosciamo la data di nascita con la pubblicazione dell’omonimo libro di Thomas More nel 1516, e quello di realismo politico che, a partire da Tucidide, soprattutto attraverso Machiavelli, Hobbes, Hegel, gli elitisti italiani e Max Weber, è diventato uno dei paradigmi più significativi nell’ambito della politica contemporanea. Se i realisti fanno riferimento soprattutto  alla “realtà effettuale”, ai rapporti di forza realmente esistenti, gli utopisti si riferiscono invece prevalentemente al “non ancora”, a un dover essere, un “totalmente altro”, che dovrebbe sovvertire l’esistente. Se i primi prediligono la prudenza come principale virtù politica, i secondi prediligono l’audacia; se i primi indulgono alla conservazione, i secondi indulgono al cambiamento. Ma alla base di questi due approcci c’è una differenza più rilevante ancora che riguarda la concezione della natura umana. Per dirla con le parole di due grandi classici, Thomas More e Niccolò Machiavelli, quella di Utopia è una natura che “aiuta i mortali ad aiutarsi l’un l’altro per una vita più lieta”; quella del Principe è invece una natura matrigna, disincantata; una natura che ricorda al principe soprattutto il fatto che gli uomini non sono “buoni”.

 

Premesso che nella realtà non esiste utopia che non contenga anche elementi realistici, né esiste realismo che non contenga anche elementi utopici, credo che proprio in questa diversa accentuazione della caducità e del male che segna la natura umana e quindi i rapporti umani in generale, inclusi quelli politici, consista una delle principali differenze tra posizioni utopiche e posizioni realiste. In altre parole, il realismo si mantiene nell’alveo di una considerazione dell’uomo come animale politico che deve fare i conti con i limiti della propria natura (per quanto razionale essa sia); una natura segnata dalla malvagità e dall’ingordigia (la platonica pleonexia) e che proprio per questo ha bisogno di leggi e di un potere che sappiano realizzare quanta più giustizia è possibile, senza perdere mai di vista la realtà e l’unità del corpo politico. L’utopia aspira invece a realizzare un uomo nuovo, una società nuova, dove non ci siano più disuguaglianze di alcun tipo, nel tentativo di ripristinare una sorta di purezza originaria. Se il realismo politico non perde mai di vista “la feccia di Adamo”, col rischio, a volte, di ridursi a una cinica legittimazione dell’esistente, diciamo pure degli interessi del più forte, l’utopia politica, in quanto progetto di trasformazione radicale della società, rischia di legittimare qualsiasi forma di violenza nei confronti di coloro che si oppongono al cambiamento. In entrambi i casi abbiamo una sorta di ipostatizzazione della realtà, la cui fenomenologia, sconfinante spesso nel ridicolo, nel grottesco e nella tragedia, credo che sia abbastanza facile da intuire e raccontare.

 

E’ precisamente questa ipostatizzazione che, occultando la tensione vitale che esiste fra utopia e realismo, favorisce sia l’illusione della società perfetta, sia il cinismo di chi, di fronte al male e all’ingiustizia, sogghigna perché tanto non cambierà mai nulla. Realismo vuole invece, questa la mia convinzione e quindi la mia preferenza fra i due idealtipi di cui stiamo parlando, che non si perda mai di vista la “realtà effettuale”, ma nemmeno la possibilità che le cose si mettano diversamente. Esattamente quanto cerca di fare la migliore tradizione del nostro costituzionalismo liberale e democratico. Un mix riuscito di realismo e apertura al cambiamento che esige dagli uomini politici soprattutto esperienza, saggezza, quella che i greci chiamavano phronesis, che poi non è altro se non la capacità di individuare in circostanze determinate e in modo inevitabilmente approssimativo la migliore soluzione di un problema.

 

Il presidente John F. Kennedy si definì una volta “un idealista senza illusioni”. Mi sembra una definizione che rispecchia assai bene l’ideale a cui dovrebbe tendere l’uomo politico: tenere i piedi ben piantati per terra, non propagare illusioni, conoscere i problemi di cui ci si occupa, guardare la realtà per quello che è e non per quello che si vorrebbe che fosse o che si vorrebbe dare a credere che sia, assumendo tutto questo come un compito morale tanto importante quanto quello di non assecondare semplicemente gli interessi del più forte. A guardar bene, sembra anche una buona regola per un uomo politico che volesse fare un improbabile esame di coscienza.
 

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