Margherita di Savoia in un ritratto di Michele Gordigiani (Wikipedia)

Reali in vetta

Gaia Manzini

La regina Margherita fuggiva in montagna per trovare l’anonimato, le sfide e soprattutto l’amore. Così è nata la sua capanna sul Monte Rosa
 

Margherita di Savoia è stata una pop star. La folla la seguiva, ovunque andasse la salutava come una dea; suscitava esaltazione, immedesimazione, curiosità nei suoi sudditi come una diva ante litteram. Al suo fascino non si sottrasse né il più grande poeta dell’epoca – Carducci – né il condottiero più famoso e impavido – Garibaldi. Le piaceva dedicarsi ad acquisti di ogni tipo – fare shopping diremo oggi – e prendere lezioni di mandolino; amava i travestimenti e la poesia indiana; e poi non le importava niente di quello che era concesso o non concesso a una donna: fu tra le prime a guidare l’auto e tra le prime a scalare vette. La montagna le era sempre piaciuta tantissimo, perché temprava il suo orgoglio ed esaltava la sua volontà; nella montagna sembrava coltivare un sogno di autenticità e di purezza. Ne era innamorata come ci s’innamora della parti migliori di sé, e proprio in montagna conobbe il suo grande amore.

 

Nell’agosto del 1888, Margherita partì per Courmayeur. Voleva concedersi qualche giorno di vacanza e qualche lunga escursione a piedi. Allontanarsi dalla corte era per lei un sollievo, un sollievo sottrarsi alla finzione di matrimonio felice con Umberto I. Le cronache dell’epoca raccontano che una volta arrivata in montagna, in poche ore di cammino raggiunse il Mont de la Saxe e il Grammont. Le persone si assiepavano lungo i sentieri per salutarla, per sorriderle e mostrare stupore. La galvanizzava la sorpresa che suscitava come regina alpinista; la sua temerarietà e resistenza fisica lasciavano senza parole, tanto più che era considerata un’icona di grazie ed eleganza. 

 

Si racconta che amasse le sfide. Il 16 agosto decise di spingersi fino a una delle vette di maggior richiamo: il Colle del Gigante, alto 3387 metri. Aveva passato la notte in altezza insieme agli inseparabili marchesi di Villamarina, ma soprattutto aveva conosciuto Luigi Beck-Peccoz, il barone che si era unito all’ascensione. Peccoz era un provetto alpinista e un uomo galante. Negli anni successivi si rivelò l’unico a conquistare il cuore della sovrana, l’unico a farla vacillare nel suo proposito di non mettere mai a repentaglio la ragione dinastica. In quella prima ascensione la spedizione aveva pernottato presso la capanna del Papillon, piccolo albergo sul Mont Frety. La cena genuina, le chiacchiere avventurose, l’allegria dell’impresa avevano ridotto le distanze tra tutti i partecipanti, ma soprattutto tra Margherita e Peccoz. Aveva dieci anni più di lei, veniva da una storica famiglia walser, conosceva il padre di Margherita (Ferdinando, duca di Genova), e le aveva offerto la sua esperienza di alpinista portandole in dono uno splendido mazzo di fiori di montagna. Mentre chiacchieravano davanti al fuoco acceso del Papillon, lui aveva invitato Margherita per l’estate seguente nella dimora che si era fatto costruire a Gressoney-Saint-Jean. Da quel momento Margherita andò in montagna ogni anno, ogni estate. La montagna era una parentesi alla formalità della corte, un luogo dove sentirsi libera e audace. Durante tutti gli altri mesi dell’anno Peccoz e la regina si scrivevano con assiduità, ma se le missive del barone esistono ancora negli archivi di un collezionista, di quelle di Margherita si è persa ogni traccia. La loro relazione è ancora oggi misteriosa.

 

Nel 1891 il barone Peccoz aveva fatto costruire un villino più in alto rispetto a Gressoney, a Staffal per la precisione (dove oggi parte la cabinovia), forse per cercare maggiore intimità tra sé e Margherita, tra loro e la montagna, quell’idea di ascendere, di celebrare la purezza del sentimento che li univa. Mentre faceva costruire lo chalet non poteva dimenticare di aver ricevuto dalla regina un dono: si trattava di un Calendario-Atlante: regalo consueto, che i regnanti destinavano agli amici fedeli della corte, ma nel caso di Peccoz, accompagnato da una ciocca di capelli biondi che Margherita si era tagliata apposta per lui. Gesto sensualissimo, intimo e deciso.

 

Quando arrivava a Gressoney, Margherita indossava solo gli abiti tradizionali: la gonna piuttosto corta e rossa che lasciava libera la gamba nelle discese e nella salite, la camicia bianca, il fazzoletto intorno al collo. Sulla testa teneva appoggiato un grande cappello che era appartenuto alla nonna del barone e che lei aveva trovato in un armadio della casa di lui. Con quel gusto di travestirsi voleva tornare ragazza e nello stesso tempo rendere omaggio al suo amico Peccoz. Per la maggior parte dei soggiorni Peccoz la ospitava al primo piano della sua grande casa che ora è il municipio di Gressoney. Aveva ribattezzato casa sua in Villa Margherita ma per evitare ogni pettegolezzo o insinuazione, il barone all’arrivo della regina pernottava in un’altra residenza di sua proprietà

 

Margherita aveva una seconda vita in montagna, ritrovava sé stessa. Come molte donne si ritagliava un’altra possibilità. Il barone aveva costruito il villino di Staffal solo perché a lei piaceva moltissimo il paesaggio e perché lì aveva avvistato dei camosci. Ma poi ne costruì un altro, questa volta a 3.000 metri, verso le cime del Monte Rosa. Ogni volta penso a quest’uomo che occupa i mesi invernali nella progettazione e nella costruzione di un nido per la donna che aspetta ogni anno, come se non riuscisse a pensare ad altro, come se per loro la possibilità di vivere uno di fianco all’altra ci fosse solo lontano da tutti. Andare sempre più in alto, librarsi insieme. Non sappiamo niente della loro relazione, possiamo solo dedurlo. 

 

Dalla sua prima volta a Gressoney nell’agosto del 1889 le prodezze alpinistiche si susseguirono senza sosta. Il ghiacciaio del Lys, la vetta di San Teodulo, il Riffelalp. Margherita faceva piantare le tende ai piedi dei ghiacciai, passava lì la notte come un generale in tempo di guerra. La sveglia era prevista alle due di notte, l’ascensione continuava fino all’alba. “Andiamo! Saremo sempre in tempo a retrocedere!” era solita dire anche se cambiava il tempo. 

 

Fino a Gressoney in quegli anni era giunto anche Carducci e il suo editore Giacomo Zanichelli. Era andato fin là per recitare alla regina una nuova ode che le aveva dedicato. Carducci la adorava; lui e Margherita parlavano sempre come due amici: lei si informava dei suoi scolari, gli raccontava del marito, gli si diceva riconoscente come mai. Carducci allora era considerato tra i più grandi poeti del continente. Luciano Regolo nel suo Margherita di Savoia (Edizioni Ares) racconta tuttavia che il voltafaccia monarchico di Carducci infastidì i repubblicani. La vendetta venne messa in atto in forma di beffe. Qualcuno fece arrivare un telegramma al sindaco di Madesimo – luogo dove soggiornava Carducci – con la notizia che la regina in viaggio sarebbe passata di lì. Il poeta si agghindò di tutto punto e andò ad accoglierla in completo nero e guanti bianchi, ma dal treno non scese nessuno, tantomeno Margherita. 

 

C’è un profondo contrasto tra la diva, l’idolo d’amore e la donna che si rifugia in montagna, che sembra volersi spogliare di ogni condizionamento e segue solo al vanità di mostrare la propria resistenza fisica, il passo deciso, la tenacia. Nel 1890 Umberto si trattiene a Roma, forse per incontrare la sua amante, la duchessa Litta; Vittorio è in Grecia e Margherita va ancora in montagna. Tornando da un’ascensione a più di tremila metri avevano perso la strada ma lei non si curava minimamente di questi dettagli, era più il senso dell’ironia a guidarla, come quando era entrata nella casa di una donna, aveva indossato i suoi vestiti da contadina ed era sfuggita per qualche ora alle attenzioni della sua comitiva, facendosi trovare a casa, arrivata con due ore di anticipo rispetto agli altri e con una tazza di tè servita in salotto. Quell’anno prima di andarsene lascia un pensiero scritto a mano sull’album di casa Peccoz: “Ciò che è veramente bello, diventa più bello dinnanzi agli occhi a all’anima, più lo si vede e lo si conosce; così è capitato per me con Gressoney”.

 

Quando non è in montagna, Margherita torna a essere la regina che parteggia per Crispi e non ama le manifestazioni dei lavoratori. Il suo potere salottiero non conosce interruzioni. Suo assiduo frequentatore è Angelo De Gubernatis, indianista e scrittore, candidato al premio Nobel per la Letteratura. A lei dedica un sonetto ed è colpito dalla cultura della regina, dal suo sapere di tutto compreso di poesia indiana. Intanto Turati a Anna Kruscioff pubblicano il Programma della Lega socialista milanese e la polveriera Monteverde salta in aria: è un attentato. Ma nel 1891 c’è anche la questione di Umberto. Il re lascia improvvisamente la capitale e raggiunge Eugenia Litta: è morto il figlio Alfonso di lupus tubercolare a soli ventun anni. Umberto era il padre naturale – sebbene nessuno ne parlasse apertamente –, era stato lui a ispirargli la passione per i cavalli, anche se il duca Giulio Litta lo aveva molto amato e sempre accudito. La notizia del re che durante il funerale seguì a piedi la bara del ragazzo raggiunse Margherita. Era la dimostrazione e la legittimazione della sua relazione extraconiugale. Tutta la corte condannò la condotta di Umberto e quando marito e moglie si ritrovarono in stazione a Roma non riuscirono neanche a parlare, neanche a guardarsi negli occhi. C’è in Margherita un aspetto di competizione come compensazione all’insoddisfazione della propria vita personale. Nel 1891 intensifica le visite all’istituto dei ciechi e ad altre istituzioni. Ispeziona personalmente le cucine, assaggia i pasti. Miete consensi e si circonda dell’amore dell’Italia.

 

Il matrimonio tra lei e Umberto era sempre stato infelice, ma solo nel privato. Margherita affiancò Umberto in ogni passo ufficiale. Fu lei, per esempio, a porre le basi per una riconciliazione tra le due fazioni dell’aristocrazia romana, quella “nera” fedele a Pio IX che non voleva avere nulla a che fare con i sabaudi e quella “bianca” più liberale. La facciata di placida intesa con Umberto fu suggellata con le nozze d’argento il 22 aprile 1893. La mattina dei festeggiamenti a Roma furono sparati 101 colpi di cannone. Eppure Margherita non vuole altro che andare in montagna. E proprio il 1893, anno delle nozze d’argento, sarà anche l’anno dell’impresa alpinistica più straordinaria. Il senatore Perazzi e Peccoz vogliono portare la regina fin sulla punta Gnifetti del Monte Rosa, a 4.559 metri. Da anni lassù si costruisce una capanna rifugio-osservatorio (che fu poi chiamata Capanna Margherita). Si voleva dare una risposta ai francesi che avevano costruito sul Monte Bianco una capanna simile. 

 

Con due settimane di anticipo rispetto all’inaugurazione ufficiale Margherita era partita con il suo solito seguito. L’accampamento si trovava presso il bivacco Linty a 3.360 metri. Tutti, compresa la regina, dormirono in tenda, e alle 4 del mattino si rimisero in cammino. Il Rosa è una montagna imponente e bellissima con le sue cime ad anfiteatro. Mi immagino le donne salire in gonna, con un equipaggiamento inadeguato. Anche se le cronache oscurarono il particolare, Margherita fu fatta accomodare su una portantina nei tratti più pericolosi. La regina entrava nella capanna che tutt’ora porta il suo nome il 18 agosto. Peccoz ce l’aveva fatta: l’aveva portata fino alle sfere celesti. C’è qualcosa di grandioso in questa vicenda: sembra essere l’apice delle loro imprese e del loro amore. 

 

Ma il barone Peccoz sa che Margherita ama le sfide e che se ha raggiunto quella vetta non si accontenterà più. Non si stupisce allora che l’anno seguente lei voglia attraversare il monte Rosa da un altro lato e da lì discendere a Zermatt. Non ha il coraggio di dirle che per lui le escursioni sono finite, che il suo cuore malandato non potrebbe reggere certe altezze, e così non si sottrae: è ancora lui a farle da guida. Ma al secondo giorno di cammino, dopo aver pernottato alla capanna Linty, la carovana passa sul ghiacciaio del Grenz, e dopo poco si deve fermare. Il barone Peccoz manda un grido e cade a terra sull’orlo di un precipizio. Margherita non se ne accorge subito, ma i soccorritori non hanno dubbi: Peccoz è stato stroncato da un infarto. È caduto per amore e per devozione, come in una fiaba, sotto lo sguardo freddo del Rosa. L’amore che aveva raggiunto il cielo non poteva che finire dove il cielo è più vicino. 

 

Margherita, regina più amata e donna ammirata, aveva conosciuto l’amore solo una volta, ci piace pensarla così, anche se le prove sono poche. Sappiamo solo che dopo la morte di Peccoz, tornò a Gressoney ogni anno, fino a quando la salute glielo concesse.

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