(Lapresse)

il foglio del weekend

Il palco di tutti

Stefano Locatelli

Giorgio Strehler ha trasformato il teatro in un bene irrinunciabile per la collettività. Un libro ne racconta “vita, morte e miracoli”

Scriveva Flaiano in una recensione al “Galileo” di Brecht, messo in scena da Strehler nel 1963: “Nel nostro paese due sono i registi che hanno capito lo spettatore e sanno tenerlo a rispettosa distanza: Strehler e la Chiesa”. Era una critica alla regia di Strehler e a tutta una solennità (la “calma delle grandi occasioni spirituali”) tale da anestetizzare la “scabrosità”, “diretta e trasandata”, della critica sociale di Bertolt Brecht. Lo diceva anche Arbasino (“ma che vuole Strehler, diventare santo?”) e lo dicevano, Fortini, Chiaromonte, Quadri, Fofi e, ancor prima,  Mario Apollonio: Strehler come principale causa dell’affermazione, in Italia, di una linea estetizzante del teatro come “prodotto finito”. Non come processo generativo “da e di” una comunità, come momento partecipativo, pluralistico della cultura. Prendeva forma l’immagine vulgata di uno Strehler mago e stregone. Uno Strehler responsabile di tutti i mali della cosiddetta “regia critica”, tendenza artistico e culturale e modo produttivo che a partire dal Piccolo di Milano era poi diventata sistema e norma di tutto il teatro italiano.

 

Sulla scia del ’68 poi, in tanti gli gridavano cose orrende e violentissime: “trombone”, “parassita”, persino “stipendiato da Moro”, quando andava bene. Divennero ben presto anche loro direttori di teatri stabili pubblici. I giovani attori e registi d’oggi (tra i quaranta e cinquanta anni, ché è questa ora l’età dei “giovani registi”) ne parlano di solito in termini politicamente corretti, anche se sempre con una certa dose di malcelata invidia per la sua centralità in termini di potere: Strehler semidio del tempio unico e privilegiato che è stato (e che è tutt’oggi) il Piccolo Teatro di Milano nel sistema teatrale italiano.

Se invece parli di Strehler con gli ufficialmente giovani teatranti (la sublime categoria ministeriale degli “under 35”) hai a che fare con una minoranza che ancora lo considera un Maestro e una maggioranza attraversata da un mix tra luoghi comuni (“fata turchina”), aforismi alla Carmelo Bene (“talentato nei capelli”), estetiche e politiche della performance che passano dal rifiuto dell’etichetta di “regista” e sfociano in un approccio anti-ermeneutico riassuntivo e definitivo: “Negli spettacoli di Strehler si capisce TUTTO”. Per questa generazione il mostro sacro non è mai stato e non sarà mai Strehler, e nemmeno Ronconi. Il mito vivente qui è Romeo Castellucci (“non riconoscere più nulla del mestiere […], arrivare all’hardcore del teatro […], non significare nulla ma suggerire tutto”).  

 

E i giovani non-teatranti? Gli under 35 e ancor più gli under 25, cosa sanno di Giorgio Strehler? In quanti hanno mai sentito questo cognome? S-t-r-e-h-l-e-r. Se lo chiedi a un’aula di matricole universitarie mediamente ventenni, magari proprio agli studenti e studentesse dei Dams e simil-Dams romani, capita che su duecento alzino la mano in venti. Sono quelli che hanno già sentito il cognome. Il nome, vabbè non importa. In cinque azzardano “era un regista” (forse di teatro, ma solo perché di film suoi non se ne ricorda). In due dicono “era il regista del Piccolo Teatro di Milano”. Sembra poco, e pure assurdo, a coloro che misurano la presunta ignoranza e superficialità degli altri a partire da propri indiscutibili riferimenti culturali (Strehler e Ronconi come i Beatles e i Rolling Stones del teatro italiano del secondo Novecento, o “Happy Days”, appuntamento pomeridiano imperdibile dei giovani comunisti romani degli anni Settanta).

Del resto, quante volte i ventenni di oggi hanno avuto davvero occasione di incontrare, prima di iniziare l’università, sui media main e non-main stream questo nome, presentato in quanto fondamentale, imprescindibile monumento della storia e cultura pàtria? A scuola forse? In tv? Su Netflix? Tik Tok?  (Che poi, diciamoci la verità, è anche difficile ricordare come si scrive sto benedetto cognome, con questa h che non si sa mai dove deve andare: Sthreler, Strelher, Strelerh, boh). Scandaloso. Non c’è più religione. Forse è colpa di Berlusconi, oppure aveva ragione Flaiano: Strehler e la Chiesa come sommi registi che “hanno capito che la forza di un’idea è in rapporto diretto all’irreprensibilità delle cerimonie che la celebrano”. Vien da pensare che le due istituzioni abbiano condiviso omologhi percorsi di retroguardia nell’immaginario di almeno un paio di generazioni di italiani.

 

Quello che ha portato alla sostanziale sparizione, nell’orizzonte mentale di giovani e diversamente giovani, di Strehler come monumento artistico nazionale ha forse anche a che fare con il progressivo svilimento e abuso, con la banalizzazione ma anche sublimazione inafferrabile della parola “artista”. Fedez, dodici milioni e fischia di follower e “io sono un artista salgo sul palco e dico quello che voglio”, può essere definito oggi “meno artista” di David Byrne (solo 186 mila follower su Instagram)? Chi sente l’urgenza di domande come questa può leggersi un paio di libri di Baricco per tentare di darsi qualche risposta. E’ che oggi in tanti, troppi vogliono fare gli “artisti”, anzi “essere artisti”, e ne rivendicano pure il diritto. Forse una delle paradossali e inevitabili conseguenze del capitalismo estetico al servizio del desiderio individuale illimitato. 

Il cortocircuito tra reality-show, talent, la sub-cultura dei gloriosi centri sociali di una volta e la retorica populista dell’“uno vale uno” ha cresciuto una generazione che sembra aver incorporato una idea artistoide di artista. Il dandy e lo sciamannato vanno a braccetto per sognare una rivoluzione culturale dal basso, in “beni comuni e cantieri di rigenerazione urbana”,  tra osterie abusive, corsi, laboratori, spettacoli, rave e produzione di birrerie artigianali, per tutti, ma per favore a pagamento e cash, nella miriade di spazi occupati delle nostre città. Dove puoi essere artista “poli-multi-inter-disciplinare”, “indipendente” e “interculturale”, ma “a buffo”, senza agibilità, senza borderò, ma è giusto perché “le istituzioni se ne fregano”. Poi basta “crederci”, “avere fiducia”, “stare sul pezzo”, e l’economia circolare e solidale farà il resto, se ti staccano la corrente arriverà un cardinale che si tufferà in una cabina elettrica a riallacciarla; e poi magari proviamo pure noi a chiedere i fondi al FUS, perché è giusto, e quanto meno che ci diano i ristori.

Un mix tra culto popolare dei Santi Patroni, immaginario dei supereroi alla Marvel, il mito del Che Guevara stampato sulle magliette, connota oggi i discorsi di dandy e sciamannati a braccetto. E Strehler, ma dai, quello dei milioni garantiti dallo Stato per fare tutti gli spettacoli che voleva, con un teatro con due-tre sale, oltre alla Scala sua seconda casa, le dive del cinema a disposizione come attrici, mogli, amanti. Quello che a un certo punto si è messo pure a rompere i coglioni per le poltroncine del nuovo teatro/cantiere infinito, da millanta miliardi di lire. No, proprio Strehler no. Establishment, espressione di un teatro di Stato, dunque artista di Stato, riverito, osannato, viziato e, soprattutto, garantito. Non sarà certo un libro importante, ben documentato, frutto di un lavoro di ricerca archivistico e di molteplici interviste, corredato da tante fotografie come quello di Cristina Battocletti (“Giorgio Strehler: Il ragazzo di Trieste. Vita, morte, miracoli”, La Nave di Teseo,  448 pp.) a far cambiare idea a molti.

 

Ma intanto varrebbe davvero la pena che  molti lo leggessero, fosse anche solo per rendersi conto di come, in un’Italia uscita dal fascismo, e in una città devastata dai bombardamenti, due “ragazzi” di 26 e 28 anni (Giorgio Strehler e Paolo Grassi), riuscirono, con la forza delle idee e il lavoro quotidiano, a convincere le istituzioni, dal sindaco Greppi fino al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti, della necessità di fondare un teatro stabile pubblico. Non c’era nulla di già dato, di conquistato. L’unica, piccola sala disponibile  semi-devastata, con camerini inagibili, palcoscenico minuscolo, pochissimi soldi e senza alcuna garanzia per l’avvenire. Proponevano una idea utopica: quella del teatro come servizio pubblico, alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco. E la realizzarono anzitutto con gli spettacoli diretti da Strehler: niente sperimentalismi, niente di elitario, ma “teatro d’arte per tutti”. Un teatro peraltro meraviglioso ed efficacissimo. Il libro di Cristina Battocletti si legge anche come un romanzo, una vicenda biografica davvero avvincente ma costruita sui documenti e il rigore del saggio storico-critico.

Qualcuno forse le potrebbe contestare un’impostazione un poco influenzata dall’opinione di Franco Quadri, che definiva eroico solo “il primo periodo, quando veramente c’era da ridisegnare l’ottica del teatro all’antica italiano degli scavalcamontagne, da rimpiazzare con la stabilità e il marchio culturale” e stroncava il secondo, dal 1972, quando Strehler torna al Piccolo come direttore unico (“un teatro d’arte dedicato a se stesso, che suscita critiche per l’isolamento dei suoi capolavori e l’assenza di un vero repertorio, e di allievi che si alternino a lui”). Si tratta, credo, di una sorta di distorsione prospettica. C’è nel libro, anzitutto, l’aspetto proprio del genere letterario “biografia di uomini illustri”, in cui di solito conta molto il racconto delle origini famigliari e dell’infanzia. Cristina Battocletti dedica giustamente molte pagine al bambino e al giovanissimo Strehler (la madre musicista, i nonni, in specie la nonna Marie Aline e il nonno Olimpio, il padre che lo lascia orfano a soli tre anni). Un imprinting che segnerà la vita intera dell’uomo Strehler. Farne una sinossi sarebbe riduttivo. Vale la pena leggere le pagine intense del libro, che colgono uno Strehler “eterno ragazzo, grande bambino, che amava riempire la sala di giochi”. Lo stesso Strehler, del resto, parlava del gioco come matrice fondamentale del teatro: “Luogo dove gli adulti giocano come i bambini, dove raccontano le fiabe e si raccontano dei sogni che hanno avuto o che vorrebbero avere…”.

 

Ma il libro è riuscito soprattutto per la capacità di mettere in evidenza come, in un uomo di teatro come Strehler, non vi sia alcuna soluzione di continuità tra arte e vita. E’  senz’altro vero che “Strehler era tutto nel suo teatro”, ma è altrettanto vero che anche tutto il suo teatro era in Strehler. E’ in fondo quell’intreccio inestricabile e indistinguibile di arte e vita che da sempre aveva caratterizzato la cultura degli attori, di quella “microsocietà” fatta di comunità chiuse, piccoli nuclei autonomi all’interno di un contesto sociale più complesso, e per metà interni e esterni a esso. La vita di Strehler non ha più le caratteristiche di marginalità e anche di emarginazione di quelle microsocietà, svuotatesi progressivamente almeno a partire dagli anni Venti, ma ne mantiene i tratti da soggetto antropologicamente sradicato. L’influente opzione critica di Quadri, e pure di Goffredo Fofi, sfuma del resto totalmente nel finale del libro. L’autrice chiude col ricordo di una mediamente anziana e distinta signora della periferia milanese, incontrata casualmente in metropolitana, che le racconta di conoscere benissimo Strehler, per il fatto di essere andata “a vedere tutti i suoi spettacoli. Era un genio […]. Dopo la sua morte ho provato a tornare a teatro, ma non ce l’ho più fatta”. Quella della anonima signora è certamente, per ragioni anagrafiche, la memoria degli spettacoli post-1972, sui quali esiste per altro una intera biblioteca specializzata di studi e saggi, specie sugli allestimenti che sono ancora accessibili in video.

 

Cristina Battocletti sembra dunque voler riassumere al lettore tutto il senso del suo lavoro di biografa quando parla di Strehler come colui che è riuscito in una “operazione difficilissima: realizzare un teatro sofisticato, ma comprensibile, portare il pubblico allo stato aurorale dei ragazzi, ricacciandolo nel liquido amniotico della fantasia. E poi trascinarlo nel dolore più profondo, infondendogli però un senso di protezione materna, che era quella che cercava per sé stesso”.

E forse sta tutto lì, in fondo, il segreto: la capacità del teatro di Strehler di modellare la memoria dei suoi spettatori, ovunque, nel mondo, e soprattutto in quel paese che oggi sembra in fondo così refrattario a considerare il teatro ancora come di interesse pubblico, bene irrinunciabile per la collettività. Non sarà allora inutile ripensare oggi a Strehler, anche grazie a questo lavoro di Cristina Battocletti, che arriva in occasione del centenario della nascita. A Strehler come momento della vita collettiva di cui gli spettatori non potevano fare a meno, fosse anche per “quel tanto di funzione ecclesiastica e di onoranze nazionali” che li teneva “fermi nelle loro poltrone per cinque ore” o perché, più semplicemente, era un teatro “in cui si capiva tutto”.