(Olycom)

Benedetta pazzia

Simonetta Sciandivasci

L’amore radicale di Goliarda Sapienza, che non è autodistruzione ma fame di vita. Ora torna in libreria (e a teatro)
 

Quando Goliarda Sapienza dice al suo analista, tirando un sospiro di sollievo ed esplodendo di gioia, “ma quindi non ho avuto un attacco di pazzia! Ho soltanto cercato di morire! Tanti lo fanno, non è pazzia!”, lui le spiega che lei non voleva morire, ma cambiare. 
“Signora, esistono i suicidi vitali: sono un modo per uscire da qualcosa”. 
“E non mi chiami signora! E si tolga la fede!”. 

 

 

Sono gli anni Sessanta. Il compagno di lei, Citto Maselli, l’ha appena tirata fuori da un ospedale psichiatrico dove è stata sottoposta a numerosi elettrochoc che le hanno fatto dimenticare quasi tutto, e l’ha affidata alle cure di uno psicanalista, Ignazio Majore, che va a trovarla a casa perché lei non riesce a uscire, non riesce a fare niente. Ricorda qualcosa di sua madre, l’intransigente sindacalista che non voleva essere disturbata quando leggeva, e preferiva il chiasso alle domande, preferiva sentire, dall’altra stanza, sua figlia che provava monologhi per presentarsi in Accademia anziché parlare con lei – “Goliarda, il rumore del lavoro non può disturbare nessuno”.

 

  

Ricorda assai meno di suo padre, avvocato socialista che non la mandò a scuola perché temeva che l’educazione scolastica italiana fosse ancora troppo impregnata di fascismo. Non ricorda niente del suo amore, Citto, ed è terrorizzata all’idea di essersi sposata (non l’ha fatto) – “Conosco un sacco di ribelli che con la scusa della mamma che altrimenti sarebbe morta di crepacuore hanno finito per sposarsi. Non bisogna farlo finché non ci sarà il divorzio!”. Succede, in queste sedute così anomale, che Goliarda s’innamora dello psicanalista, e glielo dice, e così anche lui s’innamora di lei, e glielo dice.

 

E’ transfert, è amore, è disperazione, è fame. E chi lo sa. A lei non importa l’etichetta, né la causa, o la concausa, o il condizionamento: lei fa i conti con il desiderio presente. Non le importa se è indotto, distruttivo, molesto, doloroso. Non ne valuta la potenzialità negativa, ma l’irruenza. Lo sente incombere e vuole prenderselo. Non le interessa da dove nasca il suo sentimento: è affascinata dal potere che ha su di lei, vuole sperimentarlo, offrirsi. Il suo slancio non è misurato. Quando guarda il burrone, prima di considerare il precipizio, considera il salto. Non ha paura, anche se non si fida del suo dottore.

 

Noi ci fidiamo delle persone, lei si fidava dei sentimenti. Per lei l’altro è avventura, per noi orientamento. Cosa poteva importarle se il suo amore era attaccamento al suo medico? Sempre amore era. 

 
Sul transfert, del resto, Freud stesso non fu mai netto. Si chiedeva: l’amore quale si rivela nella cura analitica può veramente dirsi qualcosa di non reale? Se pure l’innamoramento di transfert è solo una riedizione di antichi legami infantili, non è questa una caratteristica di ogni amore?

 
Freud, in sostanza, si interrogava su quanto adatti fossero i confini dei ruoli, e su quanto potessero effettivamente incidere, positivamente o negativamente, nella costruzione di un amore.

 

 Goliarda Sapienza, del tutto disinteressata a questo tipo di interrogativi pur essendo un’intellettuale di un’area certamente non ostile alla psicanalisi, fa un passo ulteriore, quello che è tipico della sua vita. Dice: e quindi, e perché no, e chi se ne importa? Se anche è transfert, io ti amo, sento caldo quando ti avvicini e freddo quando ti allontani, gioia quando sei qui e tristezza quando non ci sei. Il dottore, che tiene al suo ruolo perché la ama e vuole curarla, e sa che si perderà comunque, sia che si lasci andare ai suoi sentimenti sia che non lo faccia, le ricorda per tutto il tempo: io sono il medico, tu il paziente; l’amore non esiste; dobbiamo usare l’intelligenza. Lui mentalizza, articola, indaga, raffredda, misura; lei semplifica, disarticola, scioglie, soffia, accalora, tocca, bacia.

 

 

Lui la cura, lei si salva. Lui ne esce a pezzi, lei scrive un libro su quelle 41 sedute. “Il filo di mezzogiorno”, che esce nel 1969, fa scandalo, poi viene dimenticato, e adesso torna in libreria con La Nave di Teseo e va in scena con la regia di Mario Martone, questa settimana al teatro India di Roma e dal primo al sei giugno al Parenti di Milano. La sceneggiatura è di Ippolita De Majo, da sempre appassionata dei libri di Goliarda Sapienza: ne parla con Donatella Finocchiaro, che nello spettacolo interpreta la scrittrice, e quando si decide a scrivere il soggetto e lo fa poi leggere a Martone, suo marito, lui le dice: voglio farlo io. 

 

E’ uno spettacolo che fa venire voglia di essere pazzi, nel modo in cui era pazza Goliarda Sapienza, ovverosia sanissima ma irregolare, smisurata, esagerata, assoluta, indomabile. “Too radical for Italy”, ha scritto Anna Momigliano sul New York Times. E’ uno spettacolo che, pur venendo da un altro tempo, interroga il nostro, ne questiona l’istanza della normalizzazione che presiede quella per i diritti civili così come quella del nostro sentire, delle nostre relazioni. La questiona perché Goliarda Sapienza non chiedeva il riconoscimento della sua propria misura, bensì il riconoscimento del fatto che potesse non esserci. Voleva permanere nell’indefinitezza, se ne assumeva il rischio, non voleva che le dicessero che la sua era un’altra normalità: rivendicava la sua alterità rispetto alla norma e non una nuova norma che la includesse, tutelasse e rappresentasse. Non temeva d’intossicarsi, di rischiare, di innamorarsi del medico che la curava mandando così all’aria terapia, vita privata, famiglia, libri.

 
E’ uno spettacolo che mostra la debolezza dei nostri tentativi di misurazione: svela la paura di vivere che li anima. E quando, alla fine, Donatella Finocchiaro, dice: “E’ morta perché ha vissuto”, leggendo i versi di quella scrittrice che abbiamo mandato in manicomio perché era esagerata, in tutto, però aveva ragione, una si sente minuscola, si sente scema, capisce quanto ha perso tutte le volte che si è difesa, che ha alzato un muro, che ha detto a un altro: sei divorante, andiamoci piano, facciamo un passo per volta. Tutte le volte che non si è lanciata, non si è resa la sola cosa che siamo, in fondo, della vita: suoi strumenti. Tutte le volte che della vita ha voluto fare la padrona. 

 

 

Dice Martone al Foglio: “Quella dichiarazione finale di Goliarda mi ha fatto sentire dei rimpianti, e dire che io ho cercato di non risparmiarmi, non mi sono tirato mai indietro, nella vita. Ma avrei potuto fare di più, come tutti. Perché tutti ci freniamo, specie in questo tempo in cui mettiamo tutto a norma senza valutare mai che questo può danneggiare la nostra vita psichica”. Volendola preservare, quella vita psichica, forse, la stiamo menomando. Goliarda Sapienza non permise che le venisse fatto, il suo analista la aiutò a tornare chi era prima degli elettrochoc, non certo a placarsi, a passare dall’incendio alla candela.

 Martone: “Lei era esagerata anche rispetto al suo tempo, in cui di esagerazioni pure ce ne erano di ogni tipo: riuscì a diventare problematica persino per il milieu di sinistra che frequentava, straripante com’era. Ed è uno dei motivi, forse il principale, per il quale abbiamo cominciato a considerarla come autrice e a studiare la sua opera molto tardi, soltanto dopo la pubblicazione in Francia”. 
Il trattamento che le riservò il nostro paese, specie il coté intellettuale, è ben visibile nell’intervista che le fece Enzo Biagi appena uscita dal carcere di Rebibbia, dove trascorse tre mesi per aver rubato dei gioielli. Erano i primi anni Ottanta, la forza del legame tra pulsione di vita e pulsione di morte non solo non era ripudiato e medicalizzato ma veniva cavalcato e idealizzato. C’era l’eroina. Lei andò in televisione a dire che in carcere aveva incontrato ragazze che avrebbero potuto essere figlie sue, persone normali, non criminali, e soprattutto che aveva constatato che erano tutte dotate di fantasia: “La grande fantasia, deviata, può portare alla delinquenza”.

 

Enzo Biagi, per tutto il tempo, l’aveva interrotta e irrisa: “Mi permetta di essere quantomeno scettico, lei sta sostenendo che il carcere è un circolo di artisti”. Lei cercava di dire che in carcere stavano finendo gli irregolari, i difformi, e che in carcere paradossalmente trovavano un modo per esprimersi e questo diceva molto della salute della nostra democrazia e del nostro paese, e Biagi la trattava come un’ingenua artistoide senza senso della realtà. E invece lei il senso della realtà lo aveva, anche se poi lo trasformava. Veniva pur sempre da una famiglia di anarchici che le avevano insegnato che per capire un paese, si deve andare nelle prigioni, nei manicomi e negli ospedali.

 

 E’ un documento interessante, quell’intervista, molto al di là della facile considerazione, la prima, che viene da fare e cioè che Biagi e i suoi ospiti sottopongono la povera Goliarda a un imbarazzante quarto d’ora di mansplaining: Martone parla di “conformismo maschile”. 

 
Delle molte cose che la pièce è, c’è anche questa: un’analisi dell’analisi, molto divertita. Dice Martone: “Ho fatto due anni di psicanalisi e sono stato benissimo. Mi aveva sempre affascinato culturalmente, perché come il cinema trovo che sia uno strumento eccezionale di indagine dell’essere umano. Poi ne ho effettivamente avuto bisogno. La figura del medico, nel nostro spettacolo, è profondamente umana: lui si sacrifica per salvare lei. Le dice, a un certo punto: il fatto che io la ami, non significa che non la curerò. E così fa”. 

 

 

Tutto si svolge in casa, come nelle nostre vite da un anno e più. In una stanza che si sdoppia e che consente dei disallineamenti percettivi che danno l’idea di quello che succede nella testa di Goliarda Sapienza, ma pure di come l’incontro tra quest’uomo e questa donna si faccia totalizzante, diventi lo spazio che occupano, l’aria che respirano, le cose che si dicono: li ingloba fino a convincerli che fuori da quella stanza non ci sia niente o almeno che in quella stanza ci sia tutto. Tanto che è doppia. 
E’ Novecento puro: l’avventura intellettuale, il perdersi nell’altro, la frantumazione psichica, il tracollo, la pazzia, l’invasività militaresca dei sentimenti, il disprezzo delle certezze, l’indisponibilità a curarsi.
“Io sono uno psicanalista, signora, questo la ripugna?”. 
“No! Ma mi sono appena liberata dal sindacalismo… tutte quelle certezze…”. 

E noi? E le nostre nevrosi? Le nostre difformità? Sono un vanto identitario, da una parte, e dall’altra un rischio da prevenire, qualcosa da evitare attraverso una rieducazione. 
Nessuno vuole più essere un irregolare. Non c’è più gusto, né voglia. 
E’ costato troppo: sangue, fatica, solitudine, isolamento, elettrochoc. 

Facciamo a pezzi la normalità e i suoi canoni perché non ne possiamo più di dividere i regolari dagli irregolari, i conformi dai non conformi, i misurati dai misurati: non sopportiamo più che la distinzione finisca con l’armare la discriminazione. 
Distruggiamo le vecchie categorie producendone di nuove: è il movimento dialettico del nostro tempo. Forse, Nietzsche lo aveva spiegato quando aveva detto che, dopo essersi emancipati dalle catene, ci si deve emancipare dalla propria emancipazione. Voleva dire che non c’è modo di uscire dalla convenzione? Più probabilmente, intendeva che l’autodeterminazione non coincide con la libertà. 
Noi ci troviamo nella fase ancora precedente, quella delle catene.

 I non conformi, gli imprendibili e tutti gli altri libertini fino a ieri (oggi?) martirizzati per la loro diversità, chiedono accettazione, rappresentazione, normalizzazione, nuove misure, ordini, principi e, insieme, nessuna misura, nessun ordine, nessun principio. Ci mostrano, forse, come Goliarda Sapienza, che si muore perché si è vissuto, non perché si è sbagliato strada, scelta un’identità corruttiva, navigato a vista, ripudiato la convenzione. A tutti, regolari e irregolari, Goliarda Sapienza mostra che non c’è modo di uscire dal binario senza ferirsi e, poi, doversi guarire. 

  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.