L'intellettuale "ha il dovere di assumere una posizione precisa", scriveva Julian Benda. Nell'immagine, il gatto e la volpe nella versione Disney (Wikimedia commons)

Tra hate speech e cancel culture

I nuovi cattivi maestri

Maurizio Crippa

Negli Anni di piombo molti intellettuali rimasero zitti  di fronte ai violenti. Oggi c’è un altro “tradimento dei chierici”. Una logica meschina, un “calati junco” nei confronti di un pensiero mainstream che toglie la parola ai dissenzienti
 

“Il ruolo oracolare dell’intellettuale è diventato superfluo perché tutta la società è diventata a suo modo oracolare”. Tomàs Maldonado, 1995


Poiché nel 1995 non erano ancora nati, Tomàs Maldonado non ebbe occasione di accusare i social media di avere ucciso gli intellettuali, trasformando anche l’ultimo fesso dotato di un account in un oracolo e l’intellettuale nell’ultimo dei fessi. Del resto soltanto un anno prima, 1994, l’insigne filosofo e intellettuale impegnato Karl Popper aveva scritto Cattiva maestra televisione (allora il potere oracolare di rovinare le giovani menti era della televisione) e chiedeva che qualcuno – lo stato? L’Onu? Boh – si prendesse d’autorità il compito di interdire ai televisori la licenza di comportarsi da cattivi maestri. Ma la faccenda è più antica, dell’abdicazione degli intellettuali dal loro necessario ruolo critico scriveva Julien Benda già nel 1927, a testimonianza che il problema non sono i social né la televisione; e vent’anni dopo Adorno e Horkheimer moraleggiavano sui filosofi che un tempo sedevano sotto il trono dei sovrani ma li guidavano con sapienza, mentre invece ora che ci vanno a cena e vengono riveriti in società sono diventati i camerieri del potere. Eccetera. L’eterno dibattito sul ruolo degli intellettuali, molto otto-novecentesco, e che forse i social media stanno rendendo inutili: un algoritmo ci seppellirà. I cattivi maestri sono sempre esistiti, di solito sono ciarlieri e applauditi. Poi ci sono quelli che abdicano al dovere di rispondere, e sono sempre esistiti anche loro: quelli che stanno zitti, e sono i veri “chierici che tradiscono” la loro missione di dire la verità e di farlo in modo disinteressato, come ammonisce Benda. 

 

Nelle scorse settimane l’espressione “cattivi maestri” è tornata per qualche giorno a circolare, nei giornali e in politica, a proposito della rinuncia della Francia alla dottrina Mitterrand, con conseguente estradizione (più che altro annunciata) di alcuni ex esponenti della lotta armata condannati in Italia per reati di sangue. Tra loro non ci sono ovviamente né Toni Negri, né Oreste Scalzone,  né Franco Piperno – la triade eponima dei cattivi maestri del  processo 7 aprile e del teorema Calogero. Intellettuali sulfurei di quel tipo non esistono più, come nemmeno i teologi della liberazione col mitra, o sono da tempo riabilitati come visionari profeti. Più che altro, è la loro visione del mondo come un gigantesco conflitto di classi e di imperi ad essere passata di moda. Oggi i maître à penser leggono il mondo come un gigantesco conflitto di diritti individuali. In ogni caso, si è tornati a parlare per qualche giorno del ruolo di tanti intellettuali che negli Anni di piombo sostennero ragioni sbagliate: le ragioni della rivoluzione armata (non soltanto quella di sinistra, non solo intellettuali di sinistra: il terrorismo di destra non scappò in Francia, ma ebbe i suoi santi e i suoi santuari) o addirittura ne approvarono a parole i metodi, teorizzando la necessità di “alzare il livello dello scontro”. Erano gli anni delle “sedicenti Brigate rosse”, fino almeno al celeberrimo articolo di Rossana Rossanda che provava ad aprire gli occhi ai ciechi, quello sull’album di famiglia: “In verità, chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia” (1978).

 

Ad essere onesti, bisogna riconoscere che i cattivi maestri non furono solo quelli solitamente citati nei resoconti e nei libri, i nomi di punta. Ne fanno parte di diritto anche tutti quelli – la maggior parte e nemmeno per forza intellò professionali – che hanno preferito tacere, che non si sono intromessi o che si sono lasciati portare dalla corrente, dal mainstream che in quegli anni correva da una certa parte. Quelli che ascoltavano i discorsi dell’odio e li attribuivano allo spirito del tempo. A volte bastava la firma su un appello sciagurato. A essere minimamente onesti, bisognerebbe ammettere che la sciagurata “Lettera aperta” all’Espresso sul caso Pinelli, firmata da quasi ottocento figure di primissimo, secondo e terzo piano dell’intelligencija italiana di quegli anni sarebbe stato meglio non scriverla, e tantomeno firmarla. Non è detto che avrebbe risparmiato tutto il dolore che venne dopo (quello prima c’era già stato), ma perlomeno avrebbe evitato, a distanza di anni, pentimenti e prese di distanza francamente imbarazzanti, quando non insinceri. Ma quanti erano in quegli anni, a destra a sinistra e pure nelle maggioranze silenziose, le persone di buona istruzione, i docenti di scuola e università, i giornalisti, che lasciavano passare le idee e le parole più violente (un bailamme in cui “il potere politico nasce dalla canna del fucile”, il Mao da manifestazione, spiccava pur sempre come un elemento di raziocinio) e gli slogan liberticidi quando non omicidi come fossero semplicemente un normalissimo portato dei tempi. Un’allucinazione collettiva in cui, come nell’incubo di Gaber, i borghesi diventavano “tutti dei porci / più sono grassi e più sono lerci”. Sembrava una verità inoppugnabile per tutti e persino Gaber, per denunciarla, poteva solo armarsi della sua paradossale ironia. Altrimenti nessuno avrebbe ascoltato. 

 

In quegli anni del resto si rischiava la pelle, e molti l’hanno persa, o una bastonatura per la strada anche soltanto a dire di no. A negare le evidenze presunte delle ideologie politiche. Oggi si rischia forse di meno, dal punto di vista fisico, almeno alle nostre latitudini. Ma si rischia quasi di più l’ostracismo intellettuale e accademico (le leggi sulla libertà d’espressione, il controllo sui contenuti ammessi e non ammessi), si rischiano la carica dell’hate speech e della “cultura che cancella” se si prova a opporsi al nuovo mainstream dei pensieri, al suo totalitarismo pervasivo. Già solo quest’ultima affermazione, del resto, verrebbe seppellita con la negazione del sarcasmo da quelli che sfottono i “non si può più dire niente”, il nuovo bollino di denuncia social per chi dice cose non condivise dai più. Passare dalla parte del torto intellettuale è scomodo e difficile oggi quasi quanto era pericoloso allora. Ci vuole una corazza di libertà (o almeno la libertà che regala una certa età, ma non basta) per mettersi contro la corrente. Fa impressione, per fare un esempio, vedere come sia stata aggredita e insultata una giornalista famosa e libera di testa e penna come Natalia Aspesi per aver detto la sua, con benevola ironia, sulle battaglie dei diritti delle “ragazze di oggi”. Fa ancora più impressione vedere come sia stata lasciata sola, non che lei se ne preoccupi, perché se l’onda dell’opinione generale spazza in una direzione, è meglio non opporsi. E per parlare di violenze del pensiero più gravi, ma in qualche modo attinenti per tema: la sassaiola verbale, al limite del linciaggio, contro intellettuali donne e femministe come Marina Terragni o Cristina Comencini per aver sostenuto, a proposito del ddl Zan, idee non gradite ai sostenitori delle teorie di genere. 

 

Il chierico, definizione che per Julien Benda nel suo famoso libro non evocava disprezzo clericale ma elogio dell’intellettuale professionale e disinteressato, “ha il dovere di assumere una posizione precisa, a rischio altrimenti di cadere nella predicazione del dilettantismo, che costituisce, specificamente in fatto di morale, un insigne tradimento di chierico”. Non prendere posizione è il tradimento del ruolo che pure si pretende di occupare in società. “Calati juncu”, cedendo il passo ai cattivi maestri. La “generazione cagasotto”, li apostrofò qualche anno fa quel conservatore libero e anomalo di Clint Eastwood, parlando di chi si affida agli slogan della correttezza politica ma non sa dire niente quando quei pensieri travalicano persino il buon senso. Qualche mese fa, nel pieno della campagna per abbattere le statue, Kehinde Andrews, professore di Black studies all’Università di Birmingham, scrisse che Churchill era “un suprematista bianco che credeva nella superiorità della razza ariana” e che “l’impero britannico era stato molto peggiore dei nazisti ed è anzi durato molto più a lungo”. Pochissimi in Gran Bretagna, e quasi nessuno in Italia, si sono presi la briga di risponde che sono idiozie, e che un docente universitario non dovrebbe poter insegnare simili cose. Più facile dirle, e ci mancherebbe,  del professor Gervasoni, twittatore seriale tra il negazionista e il sessista: sono prese di posizione a favore del vento per cui non si rischia niente. È facile, come zittire (o ignorare: l’altra modalità della cultura della cancellazione) quegli intellettuali – a volte addirittura afroamericani come John McWhorter, linguista della Columbia University di cui il Foglio si è occupato tempo fa – che denunciano l’esistenza di un “black privilege” nelle università americane. Non si rischia niente.

 

Così è più comodo passare sotto silenzio l’elenco ormai sterminato dei casi di censura del pensiero “non corretto” o di libri fatti sparire dal mercato editoriale (“l’industria dei libri è diventata un rogo di libri” ha scritto Kyle Smith sul New York Post facendo l’inventario dell’editoria statunitense dell’ultimo anno). I giornali e gli opinionisti mainstrem, che non vogliono rischiare polemiche e ascolti, fingono di non accorgersene; al resto pensa la militanza organizzata, quella che sparge come insetticida il suo “non si può più dire niente”, che è il modo irridente per escludere un argomento dal tavolo del dibattito. Oppure, come è capitato di leggere su una rivista online che pure si pretende devota all’approfondimento, basta raccontare che la Cancel culture non esiste, è uno svarione inventato da gente che non conosce le culture afroamericane, e che in Italia lo svarione si è diffuso per colpa del Foglio e di Pigi Battista. Testuale. 
Attorno a questo mondo di militanza e molto social (chissà che ne avrebbe detto Maldonado, con il suo sguardo prensile), quello che anima le campagne mirate contro questo e quello, che fomenta l’indignazione contro la “censura” della Rai a Fedez, ma non si chiede minimamente se Fedez fosse nel suo diritto e nel giusto, c’è tutto un mondo di maggioranza silenziosa che sorride col silenziatore. 

 

Quando un paio d’anni fa Variety stilò la lista dei film da sottoporre a revisione perché considerati razzisti, e ci finì pure Colazione da Tiffany considerato offensivo per i giapponesi, e Forrest Gump perché "pur essendo condiscendente con i disabili, i veterani del Vietnam e i malati di Aids” sarebbe però benevolo con il Ku Klux Khan, e persino Il silenzio degli innocenti per evidente pregiudizio di genere, nessuno ha detto che Tim Gray, l’estensore della black list, è un perfetto idiota e il suo atteggiamento degno di un Farheneit della celluloide. Tra qualche mese uscirà l’atteso remake di West Side Story diretto da Spielberg: si spera che il grande regista abbia tenuto conto che il mitico musical è da anni sotto accusa in quanto poco simpatetico con i portoricani. Ci sono anche situazioni meno amene. È il paesaggio sconfortante, ovunque si guardi, di quelli che non reagiscono. Che non hanno reagito al linciaggio di Woody Allen, a quello anche meno dotato di motivi di Kevin Spacey. O che sulla rottamazione della biografia di Philip Roth scritta da Blake Bailey, escluso dai viventi pure lui per denunce verbali mai giunte nemmeno in una stazione di polizia, hanno preferito rintracciare elementi di ragione nelle parole della responsabile della casa editrice Norton & Company, Julia Reidhead, secondo cui è giusto cassare un autore non per quello che scrive o pensa, ma in base “alla nostra conoscenza del fallimento storico della nostra nazione nell’ascoltare e rispettare adeguatamente le voci delle donne e dei diversi gruppi”.

 

Nessuno ha il coraggio di dire che questo non è un pensiero critico, è una stupidaggine censoria. O quelli, venendo al nostro mondo piccolo, che sulla non vendita del libro di Giorgia Meloni sono riusciti a dire che è stato Fratelli d’Italia a prendersela “con chi fa cultura e vende libri: con un flash mob regaleranno provocatoriamente l'imperdibile opera di Giorgia” (la frase è stata scritta davvero, da un sedicente politico romano che lasceremo volutamente anomimo), ribaltando completamente la questione. E nessuno che dica nulla quando Michela Murgia spiega, in televisione, che è giusto per un libraio non vendere un libro di destra, perché i librai sono liberi. Lei che aveva detto “non lasceremo ai fascisti lo spazio fisico e simbolico del Salone del Libro”, come se la libreria di tutti gli editori fosse una sua proprietà. Oppure quelli che non solo non dicono niente della criminalizzazione che dura da anni di J.R. Rowling, scrittrice e femminista, ma sono pronti a dire che in fondo Fedez parlava a fin di bene. Quelli che “Anni venti” è da togliere dai palinsesti ma invece con l’autogrill di “Report” va tutto bene. Calati junco: il più delle volte è la pigrizia mentale, la comodità di evitare il rischio del contraddittorio, a far sorvolare su cose che non andrebbero sorvolate. Ma “si finisce per litigare” è ormai una tecnica di legittima difesa. C’è una categoria particolare di chierici molto professionali che tradiscono la loro missione. Sono quelli che quando gli altri indicano la luna, preferiscono stare a precisare sulle dimensioni del dito e sulla direzione. Non è esattamente vero che a Oxford vogliono ridimensionare la musica “occidentale”. Il bacio non consensuale del Principe azzurro era solo una boutade di un giornale, e che nessuno ha detto veramente che i libri di Giorgia Meloni non vanno venduti. Si può anche credere, chi lo pratica di certo lo crede, che sia un atteggiamento dettato da un sano principio di riduzione del danno: in un mondo che ne spara tante, diamoci una calmata almeno sugli eccessi. E poi, non sono comunque molti di più quelli come Ciro Grillo, che quelli che vogliono abolire il bacio del Principe azzurro?

 

Non è detto che sia vero, al netto della famosa scrittrice agit-prop che vorrebbe abolire gli eroi maschi da tutte le fiabe. Ma anche lo fosse, il compito dei chierici sarebbe quello combattere ogni tipo di riduzionismo. Si può non tradire la responsabilità dei chierici? La famosa lettera contro la Cancel culture pubblicata da Harper’s nel 2020 e firmata da 150 intellettuali e artisti (tra cui celebrity tutt’altro che assimilabili alla destra bigotta come Margaret Atwood, Noam Chomsky, o Salman Rushdie) viene ancora considerata da molti un’esagerazione o addirittura una cospirazione basata su pregiudizi razzisti, sessisti, politici. In Italia è passata in pratica sotto silenzio. E’ l’epoca dei nuovi cattivi maestri, e dei chierici che hanno tradito la loro responsabilità di difendere la libertà di pensiero, cioè la libertà in quanto tale. Oggi va persino di moda accusare chi difese ideologie sbagliate mezzo secolo fa. Il risultato dell’insegnamento dei cattivi maestri di oggi lo pagheremo molto prima.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"