Dario Franceschini al Globe Theater occupato (Ansa) 

spazio okkupato

Caro Franceschini, la cultura si può sostenere, ma è impossibile da governare

Giacomo Papi

L'andamento del mercato della cultura è influenzato da fattori spesso imprevedibili. La politica deve decidere se assecondare le trasformazioni o frenarle

Nella serata di oggi il ministro della Cultura Dario Franceschini parlerà alle telecamere del noto programma “Porta a Porta”: “Bisogna che quest’estate ci siano molti spettacoli all’aperto”, dirà. “Sto per firmare un nuovo bando per i fondi d’emergenza per sostenere il cinema, la prosa e lo spettacolo nelle arene e all’aperto”. E’ una bella notizia, e speriamo che non piova, perché mai come oggi gli investimenti pubblici possono determinare la sopravvivenza di settori crollati per l’epidemia. Per la politica è difficile, anzi quasi impossibile, prevedere in che direzioni la tecnologia e l’economia stiano spingendo il pubblico, ma prima deve decidere se il suo compito sia assecondare le trasformazioni in atto, magari regolamentandole, o cercare di frenarle.

 

In Italia nel 2019 erano stati venduti 97.586.858 di biglietti cinematografici, 1,6 per ogni italiano. Nel 2020 con il Covid i biglietti sono crollati a 28 milioni (0,4 a testa), un disastro contenuto dalla provvidenziale uscita di “Tolo Tolo” a gennaio. Il declino, però, era in atto da decenni. Nel 1955, l’anno più alto di sempre, i biglietti venduti in Italia erano stati 819.424.000, 8 volte di più che nel 2019, con una media di 16,8 biglietti a persona. Da allora la discesa è proseguita inesorabile: 663 milioni nel 1965, 123 nel 1985, 104 nel 2005. Oggi la crisi è dovuta allo spostamento del pubblico verso lo streaming (più che uno spostamento è un’immobilità). Nella seconda metà del Novecento era stata la comparsa di un nuovo predatore, la tv, che alla fine degli anni Sessanta sorpassò in abbonamenti il numero dei biglietti staccati.  A sorpresa, però, almeno stando ai dati Istat, la tv non intaccò, anzi, il teatro e i concerti: 16.591.000 biglietti nel 1955, 26.281.000 nel 1980, 32.906.000 nel 2014 e circa 38 milioni nel 2019 (nel 2020 il crollo è stato del 76,5 per cento). 

 

Quello che sta accadendo nel mercato dei libri è il contrario: la dimostrazione che a rimescolare le carte, non sono soltanto le buone o cattive politiche, ma anche fattori imponderabili e scarsamente controllabili. Nel 2020 secondo l’Associazione italiana editori le copie vendute sono aumentate del 26,5 per cento rispetto al 2019. Il fattore decisivo è stato l’obbligo di rimanere in casa, che ha rallentato i ritmi di vita, riorganizzato le priorità, aumentato l’attenzione e il nostro bisogno di consolazione di cui i libri si occupano meglio dei film e della tv. Un altro fattore è stato l’intervento pubblico: a incrementare in modo significativo le spese culturali dei diciottenni è stata la 18app approvata dal governo Renzi e riconfermata dai successivi, anche se non era affatto scontato che l’80 per cento scegliesse di usarla per comprare libri.

 

Il dato più sorprendente, però, quello destinato a riorganizzare le modalità di consumo e la scala di valori in cui il mondo dell’editoria si è acquattato fino a oggi, è che la crescita violenta delle librerie online uccide le librerie, ma favorisce i piccoli editori. Fa saltare, cioè, lo schema ideologico del “piccoli buoni contro grandi cattivi”, “librerie ed editori indipendenti contro grandi editori e catene”. Nel 2010 le vendite online erano il 5 per cento, nel 2019 sono salite al 27 per schizzare al 47 nel primo trimestre di quest’anno. Ormai in Italia più di un libro su due è comprato online, soprattutto su Amazon, il grande predatore che si mangia le librerie del pianeta, senza fare distinzioni tra piccole e grandi. In Italia quelle indipendenti calano dal 22 per cento del 2019 al 18 del 2020, e quelle di catena dal 44 al 33. Contemporaneamente, però, la crescita dell’online danneggia i grandi editori, che avendo la forza di stampare e distribuire più copie nelle librerie sono più visibili, e favorisce i piccoli e i medi, la cui quota di mercato è cresciuta dal 39,5 per cento del 2011 al 54,1 dei primi tre mesi del 2021. Nelle vetrine digitali le posizioni dominanti lo sono meno, sempre che Amazon non decida di prendersi tutto per sé.

 

Nel 2014 in un’intervista alla Stampa Franceschini disse: “La cultura è il nostro petrolio”, frase che per molti è il simbolo di una concezione sbagliata e profondamente mercantile del bello e del vero. Il paragone con il petrolio non mi offende. Direi però che la cultura assomiglia più all’acqua perché siamo acqua, ma anche perché l’acqua si può avvelenare, come diceva Gramsci, e scorre, si infila ovunque, modella gli scogli e scava i fiumi fino a inventare il paesaggio. Ogni intervento pubblico deve partire dalla consapevolezza di questa forza: la cultura si può sostenere, ma è quasi impossibile da governare. In questi giorni i giornali italiani celebrano Jack Lang, il ministro della Cultura di Mitterrand, idolo della gauche che nel 1981, quarant’anni fa, lanciò “Le Grand Louvre” e il prezzo unico del libro, e che intuì, tra i primi, l’immensa potenza politica della cultura di massa. Trascrivo dal Monde, 10 maggio: “Il raddoppio del suo budget, che ottenne malgrado il rigore, alimentò una politica fiammeggiante che però faticò a favorire l’accesso alla cultura delle classi 

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