(foto Unsplash)

La Parigi scintillante di Thomas Mann, dove sentirsi ancora oggi a casa

Sandra Petrignani

In attesa di poter tornare a visitare la capitale francese, la si può ripassare leggendo i “Resoconti” parigini del grande scrittore tedesco, fra il Louvre e Place des Vosges

Vi ricordate quelle elegantissime pesanti grate rotonde ai piedi degli alberi parigini? Beh, scordatevele. Anna Hidalgo, la sindaca così detta ecologista che non piace a Macron e anche a molti francesi, sta rivoluzionando la città. Per ora il risultato è l’invenzione, al posto delle care vecchie grate, di orrende aiuole che poi nessuno cura e tolgono molto all’identità altera cittadina. Per non parlare della presenza un po’ ovunque di ingombranti piloni da lavori in corso che deturpano e non vengono rimossi. Tanto che un giornale, il Devoir, giorni fa e con tanto di foto intitolava un articolo: “Parigi sta forse diventando una ‘schifezza’”? Brutte notizie per abituali frequentatori della metropoli più artistica d’Europa che non aspettano altro di poter saltare su un aereo e rimettersi a fare i flâneurs, agitando agognati passaporti vaccinali. Sperando che quando si sarà di nuovo liberi di partire, Parigi sia ancora Parigi. Per ripassarla, intanto, arriva provvidenziale – per la prima volta in Italia – il “Resoconto parigino” di Thomas Mann, tradotto da Marco Federici Solari per L’Orma (130 pagine, 16 euro).

E’ il 1926, Mann è l’ammirato autore de “I Buddenbrook”, de “La montagna incantata”, di “Morte a Venezia”, delle reazionarie e molto discusse “Considerazioni di un impolitico”, da cui ha però già preso le distanze. In Germania la Repubblica di Weimar attraversa il suo periodo migliore facendo ipotizzare un solido futuro democratico, mentre la Francia si dà alla pazza gioia nei suoi “anni folli”: una generale danza sull’orlo dell’abisso, vista col senno di poi. Ma intanto il grande scrittore tedesco è invitato per nove giorni, con la moglie, nella capitale francese per una serie di incontri pubblici, e non gli par vero di fare il turista nei momenti liberi. Sono passati quindici anni dall’ultima volta che ha visitato Parigi, ed è passata la Prima Guerra Mondiale. Ma la Tour Eiffel è sempre lì. Un prodigio della tecnica che “poggia su piedi simili a quelli di certe stufe di ferro” e gli evoca l’idea di una torre di Babele che “al posto di un tempio ha in cima un ristorante”.

Al Louvre questa volta s’innamora di un quadro di Watteau, il “Pellegrinaggio a Citera”, e non sa spiegarsi perché. Scopre la piccola chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre, “incantesimo di polvere e pietra”. E se può mangiare ostriche e granchi, pane bianco imburrato e bouillabaisse – piatti obbligatoriamente innaffiati da bicchieri di champagne che “rallegrano lo spirito e favoriscono la digestione” – può anche perdonare a questa Parigi postbellica il “clamore sbalorditivo” delle strade e lo scorrere costante di automobili “così fitto che ti ritrovi inchiodato tra morte e perdizione su un minuscolo spartitraffico senza poter andare né avanti né indietro”. Per fortuna che c’è anche la pace di una zona appartata come Place des Vosges, antico mercato di cavalli e scena di celebri duelli, “descritti da Mérimée nel romanzo La notte di San Bartolomeo”. Perché Parigi è, sì, “scintillante di luci e pubblicità”, ma conserva sempre “un’aria da antico borgo radicato nella Storia”, che è il motivo per cui, oggi come ieri, a Parigi ci si sente a casa (Hidalgo permettendo).

E poi a Parigi s’incontrano gli scrittori. A colpire Thomas Mann sono soprattutto gli émigrés russi che la rivoluzione aveva messo in fuga privandoli di tutto: le radici, la casa, la lingua-madre. Come l’ammiratissimo Ivan Bunin, “più chiuso in se stesso che ciarliero”, nella cui sorte di espatriato Thomas Mann si riflette con un pensiero profetico: “In Germania non siamo ancora arrivati al punto che uno scrittore con l’indole di Bunin debba scuotere la polvere della patria dai propri calzari e mangiare il pane dell’occidente, ma non ho il minimo dubbio che in alcune condizioni la mia sorte potrebbe essere identica alla sua”. E infatti accadrà: all’avvento di Hitler, Mann abbandona il continente per stabilirsi in California fino al 1952, quando fa ritorno, ma in Svizzera. Addio a Parigi, addio alla Baviera dove non rimise più piede. Addio all’Europa, che la Seconda Guerra Mondiale cambierà per sempre.

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