Solo 3 anni fa Chiara Ferragni aveva contro tutti, o quasi, e moltissima stampa. All'epoca, la Bbc scriveva: vorresti che tuo figlio diventasse influencer? (LaPresse)

La torsione politicista

Santa Chiara dei miracoli

Simonetta Sciandivasci

Non chiamateli influencer. I Ferragnez hanno conquistato il potere di mobilitazione e il consenso che i partiti politici stentano a recuperare. Lo spazio che prima era dedicato solo alla moda, adesso è consapevolezza sociale

Nelle ultime pagine del “Secolo Breve”, Eric Hobsbawm scrive che, nel Novecento, la depoliticizzazione ha avuto l’effetto contrario a quello previsto: anziché aumentare il potere decisionale dell’autorità, lo ha diviso, parcellizzato e consegnato nelle mani di altri gruppi di potere, corpi intermedi, attori sociali. Così, è successo che “le minoranze che promuovono campagne politiche, talvolta su temi specifici di interesse pubblico ma più spesso per interessi settoriali, possono interferire con le procedure decisionali dei governi persino più efficacemente dei partiti politici, perché si occupano di ogni aspetto della vita pubblica”. Quando diciamo che Chiara Ferragni diventa (fa?) sempre più politica, diciamo all’incirca questo: un soggetto estraneo alla politica, un singolo che rappresenta un corposo nucleo di interessi, interferisce con le normali procedure decisionali del governo e pure della società civile. Usiamo, più che interferire, il verbo influenzare, che tuttavia spiega solamente una parte della sua azione e illumina il passaggio ulteriore, quello di cui Hobsbawm individua il presupposto quando dice che nel Ventesimo secolo la gente comune è entrata nella storia come “protagonista a pieno diritto” di modo che ogni regime, tranne quello teocratico, deriva la sua autorità dalle masse popolari: “Proprio il concetto di ciò che un tempo si chiamava totalitarismo implica il populismo”.

 

I governi, insomma, democratici o meno che siano, dipendono in tutto e per tutto dalla mobilitazione delle masse, che a sua volta non dipende più dai partiti politici. Ferragni (CF) mobilita le masse. Tre anni fa lo faceva in un modo preciso, circoscritto a un ambito: la moda. Adesso i modi sono molteplici e gli ambiti pure: su qualsiasi cosa prenda la parola, non solo sposta l’opinione pubblica, ma ottiene risultati concreti. È la politica ad avere bisogno di lei, impiegandola come garante: se lei si fida di me, potete farlo anche voi. Ed è la politica ad avere bisogno di lei per farsi ascoltare: a ottobre scorso, all’inizio della seconda ondata, Giuseppe Conte chiama lei e suo marito per farsi aiutare a convincere gli italiani, specie i giovani, a infilarsi la mascherina. CF dispone di quel potere d’influenza che i partiti hanno perso, ma sarebbe incauto sostenere che tutti gli influencer, in quanto influencer, possono fare altrettanto, riempire i buchi che si sono creati nella società civile da quando la politica ha smesso, tra le altre cose, di creare spazi di aggregazione: Chiara Ferragni è un fenomeno a sé, ha una forza tutta sua, indifferibile e intrasmissibile, che travalica il potere del mezzo che sembra nata per usare (i social network), tanto che è ormai soprattutto fuori dai social network che agisce e crea valore. Instagram non è lo spazio dell’azione, ma quello della costruzione del consenso. E’ quel consenso che lei vende fuori, alla politica, alle aziende. Chi si aggiudica CF, si aggiudica un ottimo sponsor e un bollino valoriale.

 

Quando è entrata a far parte del cda di Tod’s, l’azienda ha spiegato la sua nomina così: “Riteniamo sempre più importante occuparci di impegno sociale, solidarietà verso il prossimo e sostenibilità nel rispetto dell’ambiente e del dialogo con le giovani generazioni”. La stessa persona che tre anni fa firmava bottigliette di Evian (8 euro per 75 cl d’acqua) e veniva accusata di lucrare su un bene pubblico; la stessa che dava una festa durante la quale i suoi invitati giocavano con due cespi di lattuga e veniva accusata di spreco alimentare; la stessa che fotografava il figlio appena nato e veniva accusata di mercificazione di prole: quella cattiva, spregiudicata barbie girl, oggi è la signora dei miracoli, Regina Mida, ricostituente, vitamina, amica, sorella, esempio. Tre anni fa aveva contro tutti, o quasi tutti, e moltissima stampa. All’epoca, la Bbc scriveva: vorresti che tuo figlio diventasse influencer? E dava dati allarmatissimi sulla servitù inaggirabile dei selfie, su migliaia di vite che si dedicavano al niente, che fatturavano promuovendo fuffa e vestiti, sul potenziale autoritario e rimbecillente di una nuova classe dirigente interessata solo a vendere, vendersi ed elogiarsi. Poi c’è stata la pandemia, gli influencer di tutto il mondo si sono ritratti, hanno preso a usare il loro potere nel senso indicato da Hobsbawm e lo hanno fatto anche perché il mondo s’è rabbuiato e non avrebbe perdonato unboxing, sfoggi, fesserie, frizzi, lazzi e vacuità mentre fuori e dentro le case ci si ammalava e si moriva.

 

S’è accelerato un processo già in atto e inevitabile: la torsione politicista. Da venditori, gli influencer si sono trasformati in fornitori di idee e, ancora di più, di sproni. Nessuno di loro, però, scenderà in campo – e forse dovremmo evitare l’espressione, invecchiata malissimo. Fedez, mercoledì sera, ha detto su Instagram: “Nella lista delle cose che abbiamo da fare io e mia moglie, credo che quella di scendere in politica arrivi subito dopo il diventare dei campioni di cricket professionisti e imparare a fare il nuoto sincronizzato, quindi Gasparri, lo so che mi guardi, ma stai tranquillo, nessuno vuole rubarti il posto”. Il punto non è tanto che se i Ferragnez scendessero in politica, si rovinerebbero, si annoierebbero, perderebbero consenso, potere, influenza: tutte cose che sanno benissimo. Il punto è che loro sono già politici, lo sono e lo fanno agendo attraverso quell’interferenza e quell’influenza descritta da Hobsbawm e che segna il futuro degli influencer molto di più delle analisi di mercato, quelle che ci dicono che adesso è il momento degli Instagrans, gli over sessanta che indirizzano le spese dei loro coetanei, la maggioranza ricca del mondo – ai millennial cosa vuoi far comprare, a parte paccottiglia e qualche vestito in acrilico glitterato di fast fashion, ammesso che sia ecocompatibile e solidale ed etico e inclusivo.

 

Ferragni e Kardashian pongono l’attenzione sui problemi che ci sono, richiamano la società civile, richiamano il governo, dicono cosa va e cosa non va (i vaccini, l’assistenza sanitaria, la violenza domestica, la malattia mentale): si sono occupate di tutto e lo hanno fatto senza sbagliare una virgola, con post e stories che nessun portavoce di politico tradizionale o politico tradizionale, a eccezione forse di Alexandra Ocasio-Cortez, avrebbe compilato senza almeno uno strafalcione, un riflesso condizionato, una cultura dominante e dominatrice introiettata, un cedimento più o meno involontario a una logica discriminatoria). Svegliano le coscienze, richiamano alla consapevolezza, uniscono o disgregano ma, di fatto, non agiscono. Consigliano. Dicono. Soprattutto, si autodeterminano. È’ così che raccolgono il favore delle persone: nel fare a dispetto di tutto, di ogni sistema, di ogni sovrastruttura, di ogni disfunzione, odio, rancore. Il racconto quotidiano della pace domestica dei Ferragnez non è soltanto un incredibile saggio di femminismo libertario, così libertario da essere persino conservatore, uno sfoggio di familismo morale: è una fiction, un film d’amore e d’autarchia. Casa Ferragnez è un’isola intoccabile, un’enclave. In questo, pur essendo inespugnabile e inarrivabile, si pone come punto di aggregazione: non perché tutti vorrebbero viverci, anzi, i tempi della simulazione sono tramontati.

 

F&F sono intrattenitori, sono un canale televisivo che ti tiene compagnia e, talvolta, ti dice come va il mondo e come potresti contribuire a farlo andare meglio, sposando una causa o comprando un paio di stivali. Offrono esempi, non dottrine. Prima che la nuova generazione di influencer decidesse di non farsi chiamare più influencer perché “noi non vogliamo indirizzare nessuno a fare niente”, loro erano già sintonizzati su questa variazione del tema. Fedez e Ferragni non sono invecchiati nemmeno al cospetto della GenZ, della quale certamente non fanno parte e che, si legge nella relazione di Nexatlas, “è caratterizzata da una forte coscienza critica associata alla voglia di lasciare un segno”. Quando Chiara Ferragni, l’estate scorsa, ha posato agli Uffizi per un servizio di Vogue, e in tre giorni i visitatori del museo sono aumentati del 24 per cento – i giornali hanno parlato subito di “Effetto Ferragni” –, qualcuno su Twitter ha condiviso un fotomontaggio di lei in piedi davanti al Nazzareno, con sotto l’immancabile slogan: la sinistra riparta da Chiara. E già aveva raccolto, insieme al marito, alcuni milioni di euro e fatto costruire un reparto di terapia intensiva in una tensostruttura al San Raffaele di Milano. Non senza critiche. Aveva già spiegato ai suoi seguaci, 23 milioni e passa di anime, quanto fosse importante stare a casa, usare i dispositivi di sicurezza, cominciare a capire che la pandemia non andava sottovalutata, ma temuta, cominciare ad agire come singoli e non solo come comunità. Lucrezia Ercoli, filosofa che ha dedicato a CF un saggio uscito qualche mese fa con il titolo “Filosofa di un’influencer” (Il Melangolo), ha scritto: “Il successo di Ferragni è la conseguenza di un cambiamento di paradigma avvenuto nell’universo del marketing già da tempo. In pochi anni, si è passati dal focus sul prodotto con pubblicità che insistevano sulle sue qualità eccezionali, al focus sul logo, quindi sul marchio, che però, con la nascita dei nuovi media, non basta più a se stesso. Il brand ha la necessità di inserirsi in un universo narrativo che non abbraccia non soltanto la moda, ma la vita”.

 

Il privato serve allo storytelling, esattamente come in politica. Il privato è storytelling. Tre anni fa, il New Yorker scrisse che l’influenza ha sempre fatto parte delle nostre vite: ha sfidato e forse arginato la sovranità, collettiva e personale; ha dimostrato che siamo condizionabili, talvolta servili. Shakespeare e Wilde, avendo scritto a lungo di potere, hanno scritto spesso di influenza sulle persone, intendendola come dominio su di loro. Shakespeare l’ha descritta come una sorta di servilismo irrazionale, mentre Wilde come la perdita dell’autenticità. Entrambe le connotazioni, notava il New Yorker, confluiscono nell’influenza cui siamo oggi sottoposti tutti e che viene esercitata prima di tutto da meccanismi artificiali, gli algoritmi, rispetto ai quali gli influencer si muovono di conseguenza, senza guidarli. L’autenticità, virtù richiestissima, è in verità inautentica: la sua costruzione, dice Ercoli al Foglio “non è cosa nuova. Ovidio lo scrive con un verso folgorante delle Metamorfosi: Ars adeo latet arte sua. Pigmalione ha scolpito talmente bene la sua Galatea da riuscire a farla sembrare una donna autentica. I filtri di Instagram agiscono nello stesso modo, con una potenza triplicata”.

 

La prima attestazione del termine influencer in Italia, secondo la Crusca, risale al 2007, mentre la sua diffusione al 2018, l’anno dei Cinque stelle, gli ultimi antagonisti della politica tradizionale che ha finito, com’era prevedibile, con l’assorbirli. La ragione per la quale agli influencer difficilmente toccherà lo stesso destino è che loro, a dispetto delle apparenze, non hanno completamente disintermediato: si sono posti come garanti, filtri, interpreti, latori. Questo fa Chiara Ferragni quando scrive a Draghi per dirgli il suo sdegno per il ritardo sui vaccini: si pone tra i suoi seguaci e il governo del paese. In questi anni, come molti suoi colleghi, ha offerto prima qualcosa e poi qualcuno in cui credere. Prima lo shopping, poi un preciso lifestyle e poi se stessa. “Dopo una vita passata a essere parte di qualcosa, ora Ahmad sta per oltrepassare il limite incerto di una centralità radiosa”, scrisse John Updike in “Terrorista” (Guanda), il suo romanzo sulla conversione di un ragazzo occidentale a Daesh. Nel primo decennio degli anni Zero, quando gli influencer hanno cominciato a prendere piede, discutevamo della radicalizzazione islamica dei ragazzi occidentali, di come essa offriva loro un senso che li trascendeva, del bisogno disperato che avevano di sentirsi parte di qualcosa di grande e sacro, qualcosa che li chiamasse ad agire non da consumatori ma da protagonisti.

 

Gli influencer offrono l’illusione di essere parte di una forza che sposta mercati, sfilate, marce, persone, idee. In Chiara ciascuno s’invera. Lei incarna la sintesi algoritmica dei nostri desideri e delle nostre ambizioni e, sulla base di essa, agisce al posto nostro. Come? Trascinandoci. Lei ci condiziona almeno quanto noi condizioniamo lei: è un equilibrio perfetto, la connessione che dovrebbe governare i cittadini e il governo, gli elettori di sinistra e il Pd. Seguire Ferragni significa contribuire a qualcosa, oltrepassare il limite incerto della centralità radiosa, anche se al centro, di fatto, c’è solamente lei.

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.