Robert Rauschenberg, Retroactive I, 1963

il foglio del weekend

Arte e spionaggio

Ugo Nespolo

Così l’America, in accordo con i servizi segreti, ha cambiato il mercato dell’arte contemporanea, e ha fatto scendere dal podio i paesi europei

 

Alle ore ventuno in punto del 20 maggio 1964 le gigantesche ruote del Globemaster Douglas C-124, il vecchio Shakey, nel turbine spaccaorecchie dei suoi quattro motori stellari Pratt & Whitney R-4360-35A da 3.800 cavalli ciascuno, si posano e stridono sulla pista dell’Aviano Air Base, a 15 chilometri a nord di Pordenone. Il gigantesco volo militare decollato dalla base aerea McGuire, nella Contea di Burlington, nel New Jersey, ha trasportato con tutta la cura del caso un contenuto non consueto e davvero prezioso. Religiosamente protette, hanno traversato l’Atlantico 99 opere d’arte di otto artisti americani in un’azione perfettamente orchestrata per un compito tanto semplice quanto grandioso. Vincere la Biennale di Venezia e sancire in maniera autorevole e plateale il predominio internazionale della cultura figurativa statunitense e, al tempo stesso, rendere plastico il gesto di addio rivolto a Paris, alla sua école e al suo centenario predominio intellettuale.

Fin da quando si sono sentiti ululare gli inversori di spinta dei motori nella frenata dondolante ma soffice, due luminosi sorrisi sono come fioriti da dietro i vetri dell’edificio aeroportuale, un segno sicuro di distensione, di sollievo nato dopo non poche ore di sospensione ansiosa. I volti sono quelli di Alan R. Solomon, direttore del Jewish Museum di New York, e quello di Geoffrey Goff-Smith, direttore dello United States Information Service (Usis) di Venezia. Con tutta la calma necessaria, inizia ad agire il plotone 7227 dell’U.S. Force, che ha in dotazione i mezzi più sicuri e adeguati allo svuotamento del buio, enorme ventre del C-124, per dare il via al trasporto in zona protetta delle opere dei pacifici conquistadores statunitensi. Il prezioso catalogo di quella XXXII Biennale Internazionale d’Arte racconta nella prefazione come “gli Stati Uniti sono rappresentati alla Biennale di Venezia di quest’anno da due mostre. ‘Quattro pittori germinali’ comprende opere di Morris Louis, Kenneth Noland, Robert Rauschenberg e Jasper Johns. La seconda, ‘Quattro Giovani Artisti’, con John Chamberlain, Claes Oldenburg, Jim Dine e Frank Stella. Louis e Noland vengono esposti nel Padiglione americano mentre  Rauschenberg, Johns e la seconda esposizione sono ospitate nei locali sul Canal Grande dove un tempo era il Consolato americano, annessi ufficialmente alla Biennale”.

A voler star dietro – sia pure non privi di una certa dose di senso critico – alle più che puntuali cronache scritte dalla storica Annie Cohen-Solal nel capitolo “La Biennale dei Beatles”, in uno dei molteplici libri  dedicati più che entusiasticamente a Leo Castelli, si può leggere di come e quanto quella Biennale, strumento cardine dell’avvio del predominio cultural-economico dell’arte moderna statunitense nei paesi occidentali, sia stata inevitabilmente anche campo aperto per tensioni e tenzoni più o meno cruente da parte di almeno tre nazioni in campo. Italia e Francia sono quelle che patiscono maggiormente nel toccare con mano la dolorosa capitolazione e il trionfo folgorante di un solido predominio intellettuale (ed economico) carpito con arrogante ragione e con forza sproporzionata, valendosi anche d’una incontestabile compattezza ideologica e una forza d’urto senza precedenti. Da un lato l’imponenza del progetto corroborato dalla sicurezza per un “futuro totalmente americano nel Ventesimo secolo”, dall’altro lo snobistico atteggiamento sprezzante della Francia verso l’Italia e gli italiani se persino la Cohen-Solal dice che “le tergiversazioni e l’arte di arrangiarsi degli italiani non fanno una bella figura”.

Alan R. Solomon nel testo introduttivo al catalogo generale della presenza americana, sin dalle prime battute, scrive che “alla fine della guerra, dopo il 1945, un gruppo di pittori americani sviluppò per la prima volta uno stile che non derivava direttamente da esempi esistenti in Europa”. E’ qualcosa che ha da fare con l’incipit di un manifesto che s’adopera in tutti i modi a convincersi e convincere che le opere dei nove artisti americani “stabiliscono un tono” che influenzerà tutta l’arte a venire, tono decisamente – a suo dire – già allora “frequentemente frainteso dagli europei come da non europei”.

Un’opera corale che rifiuta ogni riferimento intellettuale legato per esempio alle avanguardie europee per privilegiare una visione legata all’ambiente urbano, in cui gli artisti avrebbero “distillato da quanto di crudo e disordinato vi era nel paesaggio delle metropoli, un nuovo senso di bellezza basato non già sulla nostalgia e sulle sottili patine ma sull’accettazione delle cose come sono”.


Un manifesto per convincere che le opere di nove artisti americani “stabiliscono un tono” che influenzerà tutta l’arte a venire


 Impossibile a questo punto, proprio come credo avrà fatto Alan Solomon, non ritornare con la memoria alle “Ricerche Logiche” di Edmund Husserl, quando nell’inverno del 1896 nelle sue lezioni all’Università di Halle dava il via agli studi fenomenologici, nerbo centrale del pensiero filosofico del Novecento e parte sostanziale del pensiero di studiosi attraverso tutto il secolo giù sino a Sartre e Merleau-Ponty e ben oltre. Scrive Husserl: “Non vogliamo affatto accontentarci di pure e semplici parole, cioè di una comprensione puramente simbolica delle parole”. “Noi vogliamo tornare alle cose stesse” (Wir wolle auf die Sachen selbst zurückgeben).

La pretesa teorica di Solomon è quella di fregiare la ricerca dell’intera compagine statunitense (nonostante le palesi, plateali differenze espressive impossibili da definire in toto) di un carattere solidamente e totalmente americano nel quale tutta la memoria delle Avanguardie Storiche Europee possa esser dimenticata, combattuta e persino cancellata per una liberazione del gesto artistico dalle catene del passato. Il merito indiscusso andrebbe a Jackson Pollock, colui che ha aperto la via “non già per aver inventato uno stile che potesse essere usato come modello, ma perché contribuì ad eliminare una certa autocoscienza a far scrollare di dosso alla generazione degli artisti del Dopoguerra, una certa acuta consapevolezza del peso del passato”. (Solomon)
Ad onor del vero già dal 1946 si era cominciato a parlare di un’arte autenticamente legata al carattere nazionale, per fare in modo che “l’arte statunitense non sia più un luogo dove si accumulano le influenze europee, non più un semplice rimescolamento di ismi provenienti dall’estero”. Jackson Pollock scelto come esemplare ideale di artista autenticamente americano e, come scriveva il pittore Budd Hopkins, uno dotato delle “virtù virili del maschio americano, un duro di poche parole e se cowboy ancora meglio… uno uscito dalle nostre terre, non da Picasso o Matisse, uno cui sia concesso il gran vizio americano, il vizio di Hemingway, quello di bere”.


Già dal 1946 si era cominciato a parlare di un’arte autenticamente legata al carattere nazionale. Poi arrivò Jackson Pollock


A Venezia nell’agosto 1964 – tra splendore e mistero – l’aria era fetente, allora come ora, tra calli larghe, callette e calleselle, canali e ponti su acque opalescenti, mai trasparenti, verdure e barbe verdastre come molli corone in quel torbido capace di sgretolare in silenzio muri centenari, marcire legni, porte e portoni, pontili e bricole, scuoiare intonaci col lento ausilio dei secoli. La pensione – solo alloggio – sperduta tra le ombre di un labirinto di callette dalla parte delle Zattere, residenza a poco prezzo per squattrinati, entusiasti ed ansiosi di non mancare il corrotto rito biennale, offre quasi-camere tramezzate con compensati mai dipinti e letti piuttosto militari.

Chi è là lo è anche per immaginare proprie glorie future, feste in palazzi nobiliari, trionfi estetico-mondani e per dire comunque d’esser stati presenti al molto annunciato trionfo americano, una vittoria già scritta per la quale il grand commis delle nuove e future trionfanti strategie estetico mercantili, Leo Castelli, poteva dichiarare in un’intervista a Paul Commings: “Tutto è politica, in politica quando uno vuole farsi eleggere non è affatto facile. Ci sono correnti, sotto correnti, intrallazzi. I premi alla Biennale obbediscono alle regole del gioco”.

Fin dagli anni Trenta intellettuali e artisti fuggono da un’Europa sconvolta da dittature criminali. Una vicenda intricata e complessa narrata in maniera profonda dalla storica dell’arte Maria Passaro nel suo documentato “Artisti in fuga da Hitler”. L’esilio americano delle avanguardie europee. Erwin Panofsky in quegli stessi anni insegna alla New York University e si trova costretto – in quanto ebreo – a non poter tornare in patria. Il suo è un osservatorio privilegiato che testimonia l’interrotto flusso di intellettuali europei, quella élite che considera gli Stati Uniti terra di speranza, proprio come aveva scritto il grande artista tedesco, fondatore del gruppo espressionista Die Brücke, Ernst Ludwig Kirchner. Nel 1940, con la capitolazione della Francia, la Gestapo poteva richiedere la consegna su richiesta, cioè consegna dei rifugiati tedeschi. Il giornalista statunitense Varian Fry s’adoperò attraverso l’Emergency Rescue Committee e riuscì così a salvare più di duemila persone. Tra essi Marcel Duchamp, André Masson, Hannah Arendt, Max Ernst, facendoli espatriare, grazie anche a uno speciale visto del governo statunitense. Mentre Marc Chagall non si rassegnò mai all’idea di aver abbandonato la Francia, gli artisti del Bauhaus come Albers, László Moholy-Nagy ne furono entusiasti e la loro attività didattica al Black Mountain College sarà fondamentale per giovani artisti come Rauschenberg, Noland, Twombly, Judd. A New York Hans Hofmann, con la sua Scuola d’Arte, eserciterà un’influenza determinante sui giovani Pollock, Rothko, Gorky.
Molto azzardata allora l’ipotesi di una tabula rasa, una cancellazione radicale dalla cultura figurativa continentale, anche se non si deve negare che nel giro di pochi anni e proprio grazie al ruolo e alla cultura degli émigrés, gli artisti americani riusciranno a darsi un’identità autoctona, quella stessa che aveva trasformato gli esiti dell’Abstract Expressionism in Rauschenberg fino a tramutarlo in artista germinale del pop nascente e vincere il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del ‘64. 


Le principali avanguardie dell’arte occidentale sono emigrate negli Stati Uniti, così il centro di gravità dell’industria  e del potere politico


Nel 1948 il critico Clement Greenberg, cantore principe dell’Espressionismo astratto, si sentiva – con qualche ragione – di dichiarare: “Le principali avanguardie dell’arte occidentale sono emigrate negli Stati Uniti, assieme al centro di gravità della produzione industriale e del potere politico”.

Negli anni della Guerra fredda gli Stati Uniti avevano dato il via a un intenso programma di propaganda culturale – bene lo racconta Giovanni Fasanella nella prefazione del documentatissimo studio “Who paid the Piper? The Cia and the Cultural Cold War” della studiosa Frances Stonor Saunders, dove uno dei compiti essenziali della Cia era quello di negare la messa in atto del programma stesso. Il Congress for Cultural Freedom istituito dall’agente Cia Michael Josselson, tra il 1950 e il 1967, operava in 35 paesi e “stipendiava decine di persone, pubblicava più di venti riviste di prestigio, organizzava esposizioni d’arte. Ricompensava musicisti e  altri artisti con premi e pubblici riconoscimenti. La sua missione consisteva nel distogliere l’intellighenzia europea dal fascino duraturo del marxismo e comunismo, in favore di una visione del mondo che si accordasse meglio con l’american way”. Nel capitolo “Yankee Doodle”, nome di uno dei più antichi canti patriottici americani, sovente usato da John Philip Sousa per le marce militari, la Saunders sviscera vicende, intrighi, strategie di una Guerra fredda culturale i cui successi hanno modellato un volto nuovo ed inedito all’universo del fare cultura.

Nelson Rockefeller, presidente del MoMA, fondato dalla madre Abby Aldrich Rockefeller (“Il Museo di mia madre”, diceva!) era un appassionato collezionista di opere informali, arrivando a possederne più di 2.500 da dislocare sulle pareti delle sedi della Chase Manhattan Bank di sua proprietà. Poiché l’arte astratta era molto diversa dal Realismo socialista “valeva la pena sostenere qualsiasi cosa Mosca criticasse in modo tanto pesante”. Lo scrive l’uomo dell’Agenzia Donald Jameson che continua “questioni di questo tipo potevano essere trattate da organizzazioni o attraverso la Cia, ma solo indirettamente, in modo che non sorgesse la necessità di negare la nostra relazione con Jackson Pollock”. Ora si sa che il MoMA svolgeva un’azione di copertura per l’Agenzia ed è facile – scorrendo i nomi dei vari comitati – trovare decine di nomi appartenenti alla Cia. Nelson Rockefeller innanzitutto, già a capo dell’Agenzia in America Latina che sponsorizzava mostre d’arte contemporanea di cui diciannove affidate al MoMA. Poi John “Jock” Hay Whitney e William H. Jackson, giocatore di polo, William Burden già segretario di stato per l’Aeronautica e poi presidente del MoMA.

Nel 1974 Eva Cockcroft in un memorabile articolo su Artforum dal titolo Espressionismo Astratto arma della guerra fredda dichiarava che “nei fatti gli obiettivi dell’apparato CIA ed i programmi internazionali del MoMA erano simili e si sostenevano mutualmente”.
Si levarono non poche critiche al MoMA e nel 1952 si parlò anche di “accademia astratta” al punto che un folto gruppo di artisti americani tra cui Edward Hopper, Jack Levine, Charles Burchfield stesero e firmarono il Manifesto della realtà, dichiarando che il museo ormai “diffondeva un dogma” e disprezzava gli artisti figurativi agitando il falso spauracchio del comunismo. La santificazione di Pollock avvenne nell’agosto del 1949 con un grande servizio sulla rivista Life, con soddisfazione del MoMA, che intanto aveva costruito la fortuna dell’Espressionismo astratto utilizzando i fondi cospicui del Rockefeller Brother Fund. Peggy Guggenheim, ritornata a New York nel 1959, si chiedeva con stupore e imbarazzo se “tutto il mondo dell’arte non fosse diventato un enorme affare speculativo”.


Poiché l’arte astratta era molto diversa dal Realismo socialista “valeva la pena sostenere qualsiasi cosa Mosca criticasse in modo tanto pesante”


C’è ancora molto da leggere, studiare e raccontare per capire i passaggi di diffusione della cultura americana in Italia e  in Europa, vicende che comunque implicano un giudizio profondamente positivo dal momento che la radice culturale e politica di quanto accaduto aveva da fare con una sorta di mutuo riconoscimento tra i liberals americani ed i liberali europei. Si deve ricordare, come scrive Massimo Teodori, che “il Congresso internazionale per la libertà della cultura, alla cui presidenza d’onore sedevano personaggi come John Dewey, Bertrand Russell, Jacques Maritain, Benedetto Croce, Karl Jaspers, Ignazio Silone, creato a Berlino nel luglio del 1950, su sollecitazione degli americani, servì per contrastare l’incalzante offensiva di marca stalinista, quella che ancora vagheggiava in fatto d’arte un atteggiamento demagogico del peggior realismo sociale”. In fondo come scriveva il critico inglese Philip Dadd si può dire che la Cia “prendeva l’arte molto sul serio, e si può così arrivare alla tesi veramente perversa secondo cui la Cia fu il miglior critico d’arte in America negli anni Cinquanta, perché venne in contatto con opere che avrebbero potuto essere considerate opposte alla sua visione, realizzate da artisti della vecchia sinistra, derivate dal surrealismo europeo, ma riconobbe il valore potenziale di quel tipo d’arte e la sostenne. Non si potrebbe dire lo stesso di molti critici d’arte di quel periodo

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