Tonino Guerra ( LaPresse)

L'uomo dei gatti e dei sogni

Malcom Pagani

La prigionia, le amicizie, la Russia, Fellini, Mastroianni e tanti altri. Tonino Guerra raccontato dal figlio Andrea

Dove siano finiti oggi i randagi non è chiaro, ma fino a qualche anno fa, racconta suo figlio, il tema era all’ordine del giorno: “Andrea, dimmi la verità, qui in casa senti un forte odore di gatto?”. Tonino Guerra accudiva molti felini, “almeno quaranta”, li ospitava tra i fogli, i divani e le tavolozze del suo eremo di Pennabilli e forse lungo i tornanti della storia e della Valmarecchia, in quel lembo d’Italia in cui Toscana, Emilia e Marche sconfinano fino a toccarsi, la scelta dimostrava soprattutto una totale assenza di rancore. A causa di un gatto Tonino era infatti finito in campo di concentramento: “Erano sfollati a qualche chilometro di distanza dal paese e sua madre lo mandò in avanscoperta a vedere come stesse. Lui si era imbattuto in una staffetta partigiana, quella in fuga gli aveva passato un ciuffo di volantini e mio padre nell’infilarli dentro il tubo di una grondaia ebbe un’esitazione fatale che non sfuggì a un soldato di passaggio” ma non aveva dato peso ai segni più che al caso.

  

A Troisdorf, in Germania, neanche venticinquenne, era sopravvissuto agli stenti con la fantasia: “Cucinava tagliatelle immaginarie per i compagni di detenzione e come un Buster Keaton fuori latitudine le presentava così bene che gli altri, seri, domandavano: ‘Potremmo averne un’altra forchettata?’. Le offriva a tutti anche da Zaghini, a Santarcangelo di Romagna, un altro dei suoi poli sentimentali, all’epoca in cui la poesia si era fatta terrena e il suo amico Marcello Mastroianni la pasta la mangiava direttamente in cucina accanto ai fornelli: perché così facendo, diceva, gli sembrava di essere vicino a sua madre”.

 

Quando parla di suo padre Tonino e per fisiognomica, ritualità, battute fulminanti e sguardo dimostra che la genetica non è un’invenzione, Andrea Guerra, compositore (David di Donatello, Globi D’Oro, Nastri d’Argento, Grammy, Efa, l’Oscar europeo, collaborazioni con Tornatore, i fratelli Taviani, Ozpetek, Giordana, Muccino, Guadagnino, Veronesi, Milani, Verdone e Genovese) si affida alla memoria. Fotografie insieme se ne troverebbero poche: “Non più di cinque in tutto”, perché al patriarca mettersi in posa pareva una perdita di tempo e all’erede far sapere al mondo di essere imparentato con un signore che tra Fellini, Petri e Antonioni aveva fatto la storia del cinema italiano una piccineria o, peggio, una scorciatoia: “Babbo, lo avvertivo io il cognome non me lo cambio ma facciamo un patto. Io non ti dico niente del mio lavoro e in cambio ti prometto che non ti chiederò niente del tuo. Credo per anni di non avergli mai fatto sentire una sola mia composizione”.

 

Ora che i percorsi si sono compiuti e i sogni realizzati, Andrea ha riordinato l’enorme materiale prodotto da Tonino Guerra: “Non avevo ereditato neanche un quadro ed è stata una ricerca folle. Ho messo insieme 400 opere e fatto digitalizzare fino ad ora più di 40.000 pagine”, e dato vita a un museo permanente e a un Festival cinematografico, I luoghi dell’Anima, che se suo padre fosse stato vivo e il 2021 un anno normale, avrebbe celebrato in prima persona come faceva quando alla porta di casa si affacciavano gli sconosciuti: “Venite, fatevi avanti, chi siete? Cosa cercate?”. 

 

foto Ansa
  
L’uscio era quasi sempre spalancato e i visitatori occasionali venivano trascinati per campi e giardini, conquistati dal pifferaio magico, affabulati dal sense of humor e da quella voce che sembrava nata per raccontare: “Qui c’è l’orto dei frutti dimenticati, dove coltivare quelli che non conosce più nessuno, qui La strada delle Meridiane, puntellata di orologi solari che riproducono diverse forme lungo l’arco del giorno, qui ancora Il santuario dei pensieri”. Era ed è un vero e proprio percorso. Bellezza allo stato puro in cui Tonino era solito trascorrere le ore. Lui parlava, spiegava e divagava. Poi si faceva buio ed era ora di rientrare perché a dettare veramente il tempo, nell’ultima fase della sua vita, erano le stagioni. Tonino guardava in alto come faceva da ragazzo, con Petri e Flaiano, quando nella sua prima sceneggiatura, Un ettaro di cielo, immagina di vendere il cielo a pezzi ai contadini ingenui neanche fosse la Fontana di Trevi in Totò Truffa per poi volgere lo sguardo alla terra, agli alberi e al panorama del quale si era circondato.

   

Dopo qualche decennio a Roma il ritorno in campagna non significava misantropia, dice Andrea: “Perché è vero che l’uomo aveva un ego non semplice da contenere, un suo carisma da smussare e in certe giornate storte sapeva esser sbrigativo, ma è anche vero che sapeva stare con gli altri come nessuno, nell’ultimo decennio sentiva scorrere il tempo più velocemente e si era molto addolcito”. Si trattava soltanto di un nuovo codice, diverso da quello che negli anni romani gli faceva incontrare il Papa in mezzo alla strada o costruire i grandi copioni come L’Avventura o Amarcord sulla terrazza affacciata su Piazzale Clodio in cui ospitare di volta in volta De Sica e Antonioni.

 

All’epoca Tonino parlava la lingua della metropoli. Nella senilità spostò il luogo d’elezione delle proprie idee ancor prima che se stesso: “Diceva che si era trovato in un momento della vita in cui per rinnovare i suoi sogni ne avrebbe dovuta scegliere un’altra di metropoli e che invece di trasferirsi banalmente da Roma a Parigi aveva deciso di tornare alle origini, alla natura, a un altro modo di ascoltare le cose”.

 

La salute col tempo e con l’età era peggiorata: “Lo sapeva e come ogni convinto vitalista ossessionato dall’idea della morte e disperato all’ipotesi che l’esistenza si consumasse come un fiammifero allontanava l’idea”. E dipingere, continuare a scrivere e inventare rappresentava il suo esorcismo quotidiano: “La sua maniera di lasciare un contributo”. Era consapevole – “se rivede Ginger e Fred la critica alla globalizzazione è chiarissima” – che un certo cinema “era finito per sempre, che l’epoca d’oro era alle spalle, che la decadenza si era presentata con la scusa più volgare, quella della moda e dell’anagrafe e che persino Fellini, uno a cui Tonino da quanto ci si divertiva avrebbe fatto una sola domanda: ‘Perché mai sei morto così presto?’. Era costretto ad aspettare mezz’ora per farsi ricevere in Rai, proprio nello stesso luogo in cui fino a pochi anni prima gli avrebbero steso tappeti rossi”. 

 
I genitori di Andrea Guerra si separarono all’inizio degli anni Sessanta. La madre Paola, indipendente e fiera, lasciò Roma alla guida della sua macchina e in mancanza del divorzio ufficiale, ruppe a modo suo tornando in Romagna con i figli Costanza e Andrea, un anno e quattro. Fu lei a indirizzarlo verso la musica. Sempre lei a crescerlo. “All’epoca il mio babbo lo vedevo poco. Ma non posso seriamente sostenere di essere stato infelice. Avevo le fionde, avevo i campi e un rapporto del tutto particolare con Tonino.

 

Componevo lo 06317176, il numero di telefono, ancora me lo ricordo, oppure incollavo i francobolli, scrivevo l’indirizzo esatto e partivano delle gran lettere piene di disegnoni per non perdere nella distanza proprio tutto”. Nell’adolescenza il rapporto epistolare prese un’altra piega. “Cominciai a viaggiare a Roma e a incontrare Fellini in ascensore”, o a dare forma ai pomeriggi del babbo con Suso Cecchi D’Amico e la macchina da scrivere nell’angolo.

 

Dire chi fosse Tonino non è semplice, neanche per lui: “Ci ho messo un po’ a capirci qualcosa perché di sé Tonino parlava pochissimo, ‘poche pugnette’, ma per passione e per gioco passava la vita a osservare e a scrivere impressioni sulle sue agendine. Ne ho trovate a centinaia: ne aveva in tasca sempre quattro piene di titoli, suggestioni, frasi, scarabocchi e piccole poesie”. Le prime, in forma orale, le aveva messe insieme in prigionia e un suo compagno le aveva trascritte con un carboncino su fogli di fortuna. Le altre, quelle tirate giù in libertà e poi pubblicate insieme alle prime, ritmarono un’esistenza più inquieta di quanto il suo cinema non spingerebbe a pensare. In mezzo a un lungo fiume tranquillo, decisioni improvvise e strappi netti. Ebbe un tumore e spiazzò tutti: “Vado a operarmi in Russia”, dove, dice Andrea, “senza esagerare, il babbo è famoso come Celentano” e dove Lora, la seconda moglie, aveva contribuito ad esportare il suo enorme talento. “Il mondo russo rappresentò un passo molto importante nella vita di Tonino. Lora gli aprì le porte di una vera e propria seconda giovinezza artistica”. 

 
Tonino aveva lavorato a lungo con Tarkovskij e dopo essere stato trattato con l’onore riservato a certe glorie della patria, aveva di nuovo deviato dal percorso, aiutato il regista russo a dispiegare certe scomode metafore fuori dai confini “di quella che era ancora l’Unione Sovietica” e incrinato per un istante con gente poco incline al perdono i rapporti con Mosca. La malattia appianò i dissidi, restituì il visto a Tonino e Guerra vinse la sua battaglia. Le altre le aveva combattute a suo modo. “Incazzandosi a volte, come accade a tutti quelli che credono in qualcosa”, discutendo, “perché quella era l’epoca in cui mandarsi a fare in culo per un punto di vista non comprometteva un’amicizia e Age e Scarpelli urlavano oltre le porte facendo credere a chi passasse per caso di essere sul punto di uccidersi”, e litigando senza però mai sbattere la porta. Flaiano aveva rotto con Fellini al ritorno da un terribile viaggio americano. Il maestro in business e lo scrittore in economica. Sospetti di ingratitudine. Di incomprensione. Malessere. Al ritorno si erano ritrovati come di consueto sulla spiaggia di Fregene, ma la misura era colma e l’ultima immagine del film aveva proiettato la sparizione di Federico all’orizzonte. Il regista camminava, le sue frasi “che te ne pare Enniuccio?” si confondevano con il rumore del mare e Flaiano intanto era già lontano. Non si parlarono per anni. “Il babbo era nascostamente autoritario? Forse. Ma non è detto. Poteva accadere di non essere d’accordo su un’idea, ma per carattere, proprio come a Flaiano, a Tonino, Fellini non avrebbe potuto mai lanciare fogli senza conseguenze”. 

 
Tonino Guerra sapeva farsi amare, i rapporti di amicizia erano una cosa sacra e le polemiche rarissime. Aveva tenuto per sé e rivendicato però il senso del mestiere quando l’assalto modernista si era fatto più feroce, “perché vedi Andrea, di sceneggiature e film, come del calcio, parlano proprio tutti e tutti hanno una propria opinione ma io un film se devo farlo o non farlo lo decido in cinque minuti”. Tonino distingueva “tra film di parola e di immagine e ineluttabilmente sceglieva sempre i secondi. Gli piaceva la fantasia, non il fantastico. Una giocosa elaborazione del reale che tenesse però sempre presente il passo della storia”. Ci era passato di fianco: “Contento, proprio contento sono stato molte volte nella vita, ma più di tutte quando mi hanno liberato in Germania che mi sono messo a guardare una farfalla senza la voglia di mangiarla”. L’aveva attraversata e aveva provato a riprodurla con una melodia surreale e leggera che ai suoi luoghi doveva non poco. Era una questione privata. Linguistica e ontologica. Un’eredità della saggezza popolare del Montefeltro che a un certo punto, quasi per urgenza, trova il suo sbocco verso il mare. In certi contesti l’acqua scorre senza necessità di lauree o patenti. “Quando figarino, il barbiere del Bar Centrale di Santarcangelo, la sua base in paese, torna dal fiume e deve descrivere il caldo che fa in riva al Marecchia non si lamenta, ma lavora di allegoria. ‘Sai Tonino che oggi le formiche facevano il fumo?’”.

  

A un certo punto, solo per dire l’importanza che dava alle parole, con l’amico Theo Angelopoulos aveva immaginato un film che prendesse spunto da un mercante di parole. Parole in vendita. Parole all’asta. Parole da levigare al pari dei pensieri per trovare il sentiero meno ozioso e quindi faticare. E cercare ancora perché le buone idee hanno bisogno anche di metodo: “Quando cominciò a insegnare italiano a Savignano ai suoi alunni dava sempre lo stesso tema: ‘Cosa ho mangiato oggi?’. Gli studenti lo compilavano il lunedì e poi con crescente incredulità anche nei giorni a venire. ‘Perché’, gli chiedevano e Tonino rispondeva: ‘Perché dovete sforzarvi di sognare’”. Guerra lo faceva attraverso le riflessioni dei suoi personaggi: “Guarda quante ce ne sono, oh. Milioni di milioni di milioni di stelle. Ostia ragazzi, io mi domando come cavolo fa a reggersi tutta sta baracca. Perché per noi, così per dire, in fondo è abbastanza facile, devo fare un palazzo: tot mattoni, tot quintali di calce, ma lassù, viva la Madonna, dove le metto le fondamenta, eh? Non son mica coriandoli”. Attraverso le fughe da fermo: “Delle volte non mi sembra di avere alcun diritto di trovarmi dove sono. Sarà per questo che ho sempre voglia di andare via”. Attraverso il vetro oltre cui vedere posarsi la neve: “Uno non se lo immagina nemmeno signora mia che cos’è la neve, porca miseria, se non è stato in Russia. Signora basta sta’ fermi tre minuti e te congeli”. 

 
Dopo qualche decennio dietro le quinte Tonino aveva interpretato un celebre spot. Camminava con uno dei suoi improbabili e coloratissimi maglioni, la coppola in testa e declamava: “L’ottimismo è il profumo della vita”. Divenne una sorta di gag molto popolare, ma Tonino ci credeva davvero. Lo pensavano anche i suoi sodali. Perché ridere che ci si trovasse da Otello in Via della Croce o sul Danubio con un regista greco capace di aspettare settimane per trovare la giusta luce dell’alba, era essenziale. Dei grandi vecchi del tempo del padre “che avevano un apertura verso l’altro oggi del tutto sconosciuta”, Andrea Guerra ha lavorato soltanto con Scola: “Dal senso di responsabilità che mi metteva sulle spalle ero spaventato dalla sua stessa libertà”. Tonino l’ha inseguita per tutta la vita. Al suo funerale, sul prato della casa di Pennabilli, la bara aveva una finestrella che faceva scorgere il volto. Tonino rideva. “Ci ha fregati tutti un’altra volta”, dicevano gli astanti. E non avevano l’aria di mentire. 

 

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