Edgar Morin, sociologo e filosofo francese, compirà 100 anni il prossimo 8 luglio (Ansa)

I ricordi mi vengono incontro

Ci vorrebbe un intero libro per commentare l'autobiografia di Edgar Morin

Alfonso Berardinelli

Nella vita del sociologo francese c’è di tutto: politica e amori, convegni e viaggi emozionanti. E poi gli incontri con numerosi intellettuali, come Heidegger. O Lacan, "una specie di sciamano ispirato" 

Per commentare l’autobiografia di Edgar Morin I ricordi mi vengono incontro (Raffaello Cortina, 707 pp., 34 euro) ci vorrebbe un lungo saggio o un intero volumetto. Nato esattamente un secolo fa, Morin è stato uno dei sociologi e intellettuali di sinistra più presenti e attivi della cultura europea a metà strada fra Sartre e Baudrillard. Nella sua autobiografia c’è di tutto, politica e amori, convegni e viaggi emozionanti. Ci sono ovviamente gli incontri con numerosi protagonisti del mondo intellettuale. Sono soprattutto questi incontri che mi hanno incuriosito permettendomi una prima scorribanda attraverso le pagine dell’imponente volume. Non avevo ancora letto quello che in Italia è stato il suo libro più noto, L’industria culturale, quando Franco Fortini, all’inizio degli anni Settanta, mi parlò di Morin, di sua moglie e dei loro amici Dionys Mascolo e Marguerite Duras.

 

Più o meno coetanei, Morin e Fortini si erano frequentati molto amichevolmente quando, poco prima del 1960, le loro riviste di allora, Ragionamenti (con Alessandro Pizzorno, Franco Momigliano, i coniugi Guiducci) e Arguments si scambiavano idee e collaboratori, fra cui Roland Barthes, che allora pubblicava i suoi famosi “Miti d’oggi”. La cosa che sorridendo e in confidenza il puritano Fortini mi disse di aver notato era la spregiudicatezza sessuale, non priva di estetismo, dei francesi, che gli sembravano (ma forse li ammirava) “capaci di tutto”. Il problema dei problemi per gli intellettuali di sinistra negli anni Cinquanta era l’essere o non essere più comunisti e marxisti, e che cosa pensare dell’Unione sovietica. Stalin era morto nel 1953, Chrusciov tre anni dopo, nel XX congresso del partito, ne aveva denunciato i crimini, eppure nello stesso 1956 decise l’invasione militare dell’Ungheria e la repressione della sua rivolta popolare, nazionale e democratica.

 

Morin ricorda un paio di aneddoti risalenti allo stesso periodo. In una riunione di Ragionamenti, “un aristocratico molto stalinista, Galvano della Volpe, condannò una delle cose che avevo detto, ossia che persone di classi sociali differenti potessero avere gusti cinematografici simili; esclamò a più riprese con, nella sua voce irosa, tutta l’indignazione e l’orrore possibili: ‘Interclassismo! Interclassismo!’”. L’anziano maestro di tanti neomarxisti anni Sessanta non poteva né credere né accettare che fra la classe operaia e il ceto medio potessero condividere qualche emozione estetica e qualche sentimento. Affermarlo equivaleva per Della Volpe a sabotare la lotta di classe. Ma era destino che alla passione di Morin per il cinema i marxisti reagissero male: “Stavo tenendo una conferenza e a un certo punto dico: ‘Mi piace il western’. Questa affermazione fu giudicata mostruosa dal filosofo marxista Lucien Goldmann, che era in sala, venne verso di me, si impadronì del microfono e spiegò che non si poteva, non si doveva amare il western, strumento di alienazione e di mistificazione dei popoli”.

 

Generoso e aperto, caratterialmente disponibile e a volte un po’ ingenuo, Morin delude quando per malintesa umiltà sembra che non osi vedere e giudicare gli individui con cui ha a che fare, le loro ipocrisie e le loro recite. Succede nei suoi incontri con Heidegger e Lacan. Il primo, circospetto e astuto come al solito, non appena fiuta nel giovane Morin un possibile ammiratore, si apre un po’ e lo invita nella sua spoglia casetta nel bosco. Morin conclude così: “Dato che non posso considerare Essere e tempo un libro di filosofia nazista, dato che la complessità umana implica sfaccettature e contraddizioni nella stessa persona, penso che qualunque riduzionismo concernente l’opera di Heidegger sia erroneo e che ciascuno sia libero di interpretarlo come crede”. Morin non vuole vedere che il problema Heidegger-nazismo non consiste nel carattere nazista di un’opera filosofica uscita nel 1927, quanto nel linguaggio astratto di Heidegger e nel modo in cui mette in scena la concretezza dell’esistenza di ogni singolo usando la formula vuota “esser-ci”, mille volte ripetuta come un mantra ipnotico.

 

La filosofia di Heidegger è tutta in un linguaggio nel quale non è possibile né permesso nominare il nazismo, perché le parole di cui Heidegger dispone non sono più di una dozzina e per parlare di fatti storici, di individui reali e di crimini politici serve un lessico un po’ più vario e onesto. Poi, certo, tutto è complesso, ma anche semplice. La filosofia di Heidegger ha funzionato come la maschera di un inflessibile ipocrita che vede metafisica dove c’è politica e violenza. Ma quanto a benevolo candore, Morin si mostra recidivo. Trascinato da un amico a un seminario di Jacques Lacan, ne ricavò solo quanto segue: “Vedevo Lacan come una specie di sciamano ispirato, che pronunciava parole alle mie orecchie (e indubbiamente a quelle di molti) esoteriche e misteriose: talvolta mi colpiva una formula fulminante e la annotavo subito, poi tutto ricadeva nell’incomprensibile. Ma non provavamo alcun fastidio, mai, eravamo affascinati dallo strano carisma del personaggio”.

 

Io trovo strano che un intellettuale impegnato come Morin si limiti a trovare “strano” il carisma di uno che non si fa capire. Prima Heidegger, poi Lacan. È proprio vero che l’illuminismo ha abbandonato la cultura del Novecento. Fra attivismo, gesti e carismi, propaganda e pubblicità, mode e divismi, fermarsi a riflettere e a capire, è una cosa che sembra ripugnare perfino a un “maitre à penser” di sinistra, nonché sociologo, come Morin. (Nota linguistica. Trovo ancora una volta che il francese “consacrer” viene goffamente e solennemente tradotto “consacrare” e non dedicare. Secondo i nostri traduttori dal francese, pare che in Francia non ci si dedica ma ci si consacra anche a scrivere un libro, a studiare per un esame, a prendersi cura dei figli, a coltivare fiori, a riordinare i propri cassetti... Sarebbe ora di finirla con questo consacrarsi. Non siamo in chiesa, né al cospetto di Dio!)

 

Di più su questi argomenti: