Mimose, retorica e il problema della cultura oggi dominante

Sergio Belardinelli

Che strano mondo quello in cui la differenza uomo-donna è gestibile a piacimento

È passato da poco l’8 marzo, festa della donna. Mimose, messaggi d’auguri e un po’ di retorica l’hanno fatta anche quest’anno da padroni, ma il significato di questa festa resta ancora per molti versi una sfida. Basta aprire una qualsiasi agenda politica che riguardi le donne per rendersi conto che, specialmente in Italia, c’è ancora molta strada da percorrere prima che si realizzi una vera parità, una vera consapevolezza del loro ruolo fondamentale in qualsiasi ambito della nostra vita, non soltanto familiare, ma anche culturale, economico e politico. Siccome si tratta di una storia di discriminazione sulla quale si scaricano pregiudizi secolari, per nulla risolti, che riguardano in particolare il modo di intendere la differenza uomo/donna e, più in generale, il rapporto tra natura e cultura, vorrei cercare di dire qualcosa proprio su questi ultimi temi solitamente lasciati sullo sfondo, anche nelle celebrazioni della festa della donna. 

 
Nel mondo di ieri le caratteristiche del maschile e del femminile venivano pensate come derivanti dalla natura, fondate sulla natura, legate per lo più al sesso, che ne determinava anche il ruolo sociale. Quali fossero rispettivamente i ruoli dell’uomo e della donna era, diciamo così, fissato a priori. Era per natura che le donne dovevano stare in casa; per natura che il loro unico status sociale doveva essere quello di madre. Da una differenza biologica, quella tra maschio e femmina, si deducevano insomma ruoli sociali e valori culturali, come se la differenza sessuale determinasse necessariamente differenze ontologiche anche su altri piani. Di qui le discriminazioni, giustificate in nome della natura, di cui le donne sono rimaste vittime nel passato, e per molti versi lo sono ancora oggi, che il variegato movimento femminista non si stanca di denunciare. Un uso poliziesco del concetto di natura senz’altro deprecabile, che però si vorrebbe scardinare, a mio avviso in modo sbagliato, rendendo la stessa differenza sessuale un fatto eminentemente culturale.

  
Per una certa cultura oggi dominante le caratteristiche del maschile e del femminile, diciamo pure, le differenze sessuali, dipendono non più dalla natura ma dalle scelte degli interessati. Ognuno ha diritto di essere ciò che vuole essere. La natura diventa un materiale di cui disporre a piacimento; non è più un padrone al quale sottomettersi. Siamo passati insomma da una concezione della natura talmente potente e “naturalistica” da rappresentare persino la fonte normativa di ciò che dovevano fare gli uomini e ciò che dovevano fare le donne, a una natura talmente impotente da non significare più nulla nemmeno a livello di differenza sessuale. Emblematica in proposito l’odierna cultura del gender, per la quale la differenza uomo-donna è un fatto puramente accidentale, dipendente dalle nostre scelte e, come tale, gestibile a piacimento. Essere uomo e essere donna diventano semplicemente sinonimi di “sentirsi” uomo o sentirsi donna in un contesto dove sono possibili innumerevoli espressioni di genere. D’altra parte, come ha giustamente sottolineato Charles Taylor, l’uguaglianza moderna, essendo declinata come uguale diritto di ciascuno alla propria differenza, non riguarda più ciò che tutti gli uomini, quindi anche le donne, hanno in comune per il fatto di appartenere al genere umano, ma piuttosto il diritto di ciascuno di scegliere liberamente la propria identità individuale, sociale o sessuale. Solo che, neutralizzando tutte le differenze, c’è il rischio che la stessa differenza diventa indifferente.

 
Ciò che voglio dire è che di sicuro è sbagliato sostenere che tutte le differenze psicologiche e sociali tra uomo e donna sono da ricondurre meccanicamente a una differenza anatomica, quella sessuale appunto. Più sbagliato ancora è dedurre da questa differenza una serie di naturali subordinazioni, tipo quelle di cui le donne sono vittime ancora oggi. Ma questo non giustifica la radicale neutralizzazione della differenza sessuale operata da certi settori della cultura contemporanea, come se la natura, non sia altro che cultura. Non dipende da nessuno che siano le donne a partorire i figli dopo averli portati in grembo per nove mesi. E’ semplicemente natura. Ma siccome i figli sono una grande risorsa per la società (tralascio i motivi non meno rilevanti di soddisfazione personale), cultura vorrebbe, ecco il punto, che le donne venissero premiate per questo, non discriminate. A maggior ragione se pensiamo agli effetti negativi che questa discriminazione produce, non soltanto per le donne, ma per l’intero assetto economico, sociale e civile della nostra società. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che, specialmente in Italia, il mondo del lavoro discrimini le donne per via della maternità, che la nostra società soffra per tassi di natalità troppo bassi e che le donne che lavorano sono quelle che mettono al mondo più figli. C’è un grande lavoro politico-culturale da fare in questo campo, sul quale è giusto richiamare l’attenzione, magari anche più che una volta all’anno. 
  

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