All'allenatore ungherese Árpád Weisz, che conquistò due scudetti prima di morire nei campi di Auschwitz, è stata dedicata solo nel 2018 una parte dell'impianto felsineo. Riflessioni su una storia contraddittoria, da cui possiamo imparare molto
La storia che provo a raccontare si presta a finire nello stesso girone algoritmico della pasta Molisana, tanto che in un momento di smarrimento avevo pensato di chiedere alla redazione di pubblicarla solo su carta. Di spazi pubblici e memoria storica se ne parla spesso, e fuori dalle nicchie della cultura alta non è mai un bel dibattito. Non lo è soprattutto se di mezzo ci sono gli stadi, il genere architettonico preferito dal regime fascista e il luogo in cui ancora oggi ci divertiamo a perdere il lume della ragione, come Vittorio Gassman nel settimo episodio de «I Mostri». Nei ciclici e sconclusionati ritorni di scandalo sui simboli del fascismo nel tessuto urbano il primo bersaglio dei «giusti» in genere è il Foro Italico con il suo obelisco. Come se la sua permanenza avesse l’obiettivo di legittimare le delinquenze delle frange del tifo laziale e romanista, come se i mondiali di Grosso e Materazzi non fossero stati vinti nello stadio delle olimpiadi hitleriane, come se proporsi, oggi, di cancellare forme-monito che gli antifascisti del dopoguerra ci hanno consapevolmente lasciato, non fosse il miglior modo di riattualizzare il mito politico del fascismo, invece di superarlo con la comprensione del passato e la costruzione di solide coscienze democratiche.
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