dall'archivio
Pasolini e questi quarantacinque anni di teorie sulla sua morte
Il 2 novembre del 1975 veniva assassinato all'idroscalo di Ostia l'intellettuale di cui si continua a parlare molto e a leggere poco.
Quarantacinque anni fa all’Idroscalo di Ostia veniva assassinato Pier Paolo Pasolini. Sulla sua morte è da quarantacinque anni che girano teorie e sospetti, un mescolarsi di complottismo e non piena accettazione della verità giudiziaria. Un po’ perché le indagini allora lasciarono qualche spazio al dubbio e all’immaginazione, un po’ perché per anni mezze affermazioni, dichiarazioni sensazionalistiche e frasi a metà hanno contribuito a rendere foschi gli ultimi giorni in vita dell’intellettuale. La morte di Pino Pelosi nel luglio del 2017, colui che confessò l’omicidio per poi ritrattare davanti alla Leosini durante il programma “Le ombre del giallo”, non fece altro che riportare in auge tutto questo inseguirsi di ipotesi.
Eppure, come scriveva Giuliano Ferrara, “la santificazione internazionale di Pasolini aveva disperatamente bisogno del mistero intorno alla sua morte”. Perché “che un poeta potesse morire per mano di un efebo violento, quello che avevo davanti, invecchiato, da Zi’ Elena, era inconcepibile per gli sciocchi e i parassiti della processualità infinita. Che potesse morire per i motivi e le circostanze da lui stesso indicate negli articoli del giorno prima, corsari, non era questione. Ci voleva il mistero, quel fatale ‘io so, ma non ho le prove’, che lo stesso PPP aveva applicato al paese sporco contenente il paese pulito detto Pci. Tempo di frescacce, come si dice a Roma, capitale della mafia”.
Perché molto probabilmente “l’omicidio all’Idroscalo di Ostia non fu commissionato da nessuna forza oscura anche perché il potere, fosse pure con il più sfacciato maiuscolo di POTERE ha avuto un modo perfetto per neutralizzarlo: lo ha ridotto a immaginetta. Ed è, Pasolini, un ecce homo di pronto accomodo. E’ quasi una t-shirt modello Che Guevara, lo si ritrova stampato sui muri scrostati della bohème caciottara di Trastevere, a Roma, come una trasfigurazione della Pietà michelangiolesca e nugoli di beccamorti, nella sequela degli ismi, si asserragliano nel fortilizio dei pasolinismi col gioco delle identificazioni”, scriveva Pietrangelo Buttafuoco.
"Il Potere, insomma, s’è impossessato del cadavere per farne un totem buono per sintonizzare qualunque furbastro col sentimento diffuso dei Jovanotti e quel PPP è, ormai, il marchio del più efficace degli anestetici. Esattamente quello che nell’addormentare lo spirito critico scioglie, poi, il lievito montante di tutti i riflessi condizionati. Dal retroscena obbligato del complottismo per arrivare allo sperimentalismo che è proprio di tutti i menomati della letteratura", scriveva Maurizio Crippa.
Quarantacinque anni dopo rimangono molte pagine di giornale scritte, tantissime ipotesi, nessuna controverità. Rimane il fatto che di Pasolini si continua a parlare, ma non a leggerlo. Perché, scriveva Salvatore Merlo in una lettera al direttore Claudio Cerasa “sembra che PPP abbia i piedi ben piantati non nel Novecento, ma in un preciso e forse trascurabile ritaglio del secolo” e in lui non rimanga “una sola parola, un’idea, un’immagine che sia d’uso corrente o universale, spendibile oggi, che insomma non suoni stantìa, vecchia, indigesta, non rinchiusa in quell’epoca e nelle ossessioni d’una generazione per la quale il Maggio francese aveva segnato la grande svolta della vita”.
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