Quell'incanto inaspettato della maternità raccontato da Lidia Ravera

Gaia Manzini

Una donna che finalmente non è più in imbarazzo davanti all’amore, ma si conforma invece alla totale reciprocità a cui è chiamata dalla bambina. “Tempo con bambina” per Bompiani

“La guardo stupita e mi compiaccio del mio stupore. Ma c’è dell’altro, qualcosa di difficile a dirsi. Una forma di eccitazione che non provavo da tempo, un trasporto come di innamorata, quel desiderio di contatto che ha mosso le mie mani verso altri corpi in altre fasi della mia vita. E che da qualche anno taceva. Ho costantemente voglia di abbracciare. Di abbracciarla”. “Tempo con bambina” di Lidia Ravera (Bompiani) è un libro di posture ritrovate, di movenze a quattro zampe, di abbracci, di momenti d’abbandono sul tappeto o sul pavimento. E’ un riscriversi con pienezza nel ruolo di nonna, anche se Mara, nata nel 2016, è figlia di Maddalena: bambina della sorella morta troppo presto. E’ a questa sorella che si rivolge l’autrice con quell’incanto ritrovato che nelle lettere trova maggiore intensità. Incanto per la vita nuova che si fa avanti con i suoi desideri, la sua lingua spezzettata, i passi incerti e gioiosi, le pause, la scoperta del mondo. Ricorda Livia Ravera il padre che si risvegliava dalla sua assenza senile solo se arrivava un bambino al mare, dove villeggiavano tutta l’estate; lo guardava con le pupille che si riempivano di lacrime dietro agli occhiali. Ciao ometto, gli diceva.

  

Incanto per un amore che va conquistato, che non è scontato e allora bisogna lavorare di seduzione. Incanto per il ruolo inaspettato: lei che per Maddalena è stata una madre adottiva, ma da Mara è stata eletta subito nonna. Riguardo all’esperienza di nonna, Ravera cita “L’ospite” di Lalla Romano: “Una felicità molto più grave, appassionata e complessa di quella che mi ero immaginata”.

  

In ogni passo al fianco della piccola Mara c’è la rievocazione della sorella, di cui la bambina porta il nome. Una nuova vita che rende possibile il ritorno di un’altra che non c’è più, eppure è dentro ogni pensiero. Sta qui la malinconia, la tridimensionalità di questo libro. Il passato che ritorna tutto, le due sorelle diversissime nei loro desideri e nei loro progetti per il futuro; una madre sullo sfondo che descriveva la maternità come sacrificio, rinuncia, servizio.

  

“Penso alla responsabilità affettiva che comporta la maternità e me ne spavento. Meno male che a ventisei anni, la prima volta che sono rimasta incinta non lo sapevo. Non avevo idea di che cosa volesse dire essere madre. Non avrei mai affrontato, consapevole, l’avventura di produrre un corpo col mio corpo, di rompere l’armonia prenatale spingendolo fuori da me, di condannarmi ad amarlo per sempre. A farmi carico della sua dipendenza, che nei primi anni di vita è totale”. Perché essere madre non è così immediato, così naturale come sembra. Ma l’autrice mamma lo è diventata due volte: di suo figlio Nicola e di Maddalena, la figlia della sorella rimasta orfana a undici anni.

  

E il più grande incanto tra quelli inanellati in queste pagine è proprio questo proiettarsi continuamente fuori da se stessa; questo dimenticarsi del proprio narcisismo e della voracità del proprio io, per seguire un ritmo nuovo: il ritmo segreto delle cose. Nuove proporzioni, nuove direzioni. Una donna che finalmente non è più in imbarazzo davanti all’amore, ma si conforma invece alla totale reciprocità a cui è chiamata dalla bambina. Una donna che si scopre forte e felice in modo nuovo e inaspettato. Che incontra il senso della dedizione costante e continua. “Io sto con la bambina”, dichiara. Sparisce con lei, seminando eventuali inseguitori. Accoglie la sua mano piccola e fresca. La custodisce, la stringe come un salvacondotto che la autorizza a oltrepassare certi confini fissati dal tempo. “La bambina è con me, io sto con la bambina”.

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