Stefano Piperno e Claudio Bondì a Santa Marinella nel giugno 1947. Foto di copertina di “Perché ci siamo salvati” (Marsilio)

Perché si sono salvati

Annalena Benini

Settantacinque anni dopo, Stefano Piperno e Claudio Bondì hanno raccontato la storia delle loro famiglie. I matrimoni, i pericoli, il 16 ottobre 1943, la liberazione. E quella fiducia incrollabile nella vita e nel futuro

Due bambini ebrei nati nel 1944, a un mese di distanza l’uno dall’altro, a Roma. Nati sotto false generalità, e nati per fortuna, per caso, per ostinazione, per avventura e per allegria.

 

Sono Stefano Piperno e Claudio Bondì, cugini che oggi, a settantacinque anni, hanno ricostruito la loro storia (dovrei dire anche la nostra storia, la nostra memoria, ma non sarebbe esatto: ogni storia è diversa, unica, anche dentro l’enormità di un orrore che conosciamo e che ci riguarda tutti) in un memoir epistolare, “Perché ci siamo salvati” (pubblicato da Marsilio) che porta in copertina la foto di due bambinetti sorridenti: si tengono per mano e abbracciano i loro palloni, sulla spiaggia a Santa Marinella nel 1947. Sono i narratori di questa storia, e a me sembra che il loro punto di vista sia rimasto lo stesso degli sguardi nella foto: hanno scelto di raccontare la vita e di ringraziarla.

 

Caro Claudio,

in piena guerra, dopo cinque anni di vessazioni derivanti dalle leggi antiebraiche, due giovani coppie di ebrei poco più che ventenni, col consenso dei genitori, non solo si sposano, ma concepiscono subito dei figli, noi due. Follia, incoscienza, sprezzo del pericolo? Difficile rispondere a distanza di tanto tempo. La mia impressione è che l’anelito alla felicità superò qualunque ostacolo, la normalità del bene contro la banalità del male.

 

Caro Stefano, prima di cominciare sento il desiderio di esprimere la gioia, la felicità dei settantacinque anni passati senza catastrofi. Siamo stati la generazione più fortunata di tutto il Novecento.

 

“Per l’ennesima volta reagirono alla morte vivendo. Trasformando la debolezza in forza”, scrive Alessandro Piperno nella postfazione

Stefano Piperno e Claudio Bondì hanno ricostruito con tenerezza e con gratitudine gli intrecci e le vicende delle loro famiglie, i matrimoni, le scuole, le vacanze, le discriminazioni, i sotterfugi, i documenti falsi, le feste, la paura, i pericoli scampati e la liberazione. Per entrambi, due minuti in più, una persona generosa in meno, o una maggiore ostinazione delle SS nelle ricerche di ebrei nei palazzi borghesi e nelle campagne, e non sarebbero qui, anziani, a raccontare il sentimento dell’essere ebrei allora e la fiducia incrollabile dei loro genitori, nonni, zii, cugini, verso il futuro, verso la possibilità di una felicità che non poteva nascondersi per sempre. Lo scrive anche Giacomo Debenedetti nel fondamentale “16 ottobre 1943”: “Loro continuavano a pensare a un dopo nella vita di prima, con le abitudini di prima”.

 

Non era lo sterminio che si poteva avere in mente, non era la morte, ma la vita: adattarsi, aspettare, trovare il modo di organizzare lo stesso una bella festa di nozze tra Franco e Maria, trovare alla borsa nera gli ingredienti per preparare le zucchine alla concia (zucchine fritte nell’olio e marinate con sale, aceto, aglio e basilico) e la cicoria all’agro, lessata e condita con olio, sale, pepe e succo di limone, mescolata con delle fettine di bottarga di muggine, pressoché introvabile allora, ma che non doveva mancare nel matrimonio giudaico romano di due ragazzi che, contro ogni prudenza, ma soprattutto contro ogni senso di paura e di accettazione di una catastrofe, si sposano il 6 giugno 1943 e partono per il loro viaggio di nozze in Italia. Sono i futuri genitori di Stefano Piperno, sono i nonni dello scrittore Alessandro Piperno, che a questo libro offre una lunga posfazione, un commento del commento, e l’ammirazione commossa per questo modo di reagire all’orrore scampato ma certamente non evitato: “Per l’ennesima volta reagirono alla morte mangiando, vivendo, spassandosela. Trasformando la debolezza in forza. Non permisero che fosse l’angoscia, o il risentimento, a dettare loro l’agenda emotiva degli anni a venire”.

 

Anche Anna Frank non voleva cedere: “Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione”

Ma quel giorno del 1943 è ancora presto, la liberazione è lontana, così come il pensiero della morte: Franco Piperno indossa il tight, anche se non gli sta benissimo perché non è alto e magro, e per non sciuparne le code cerca di allacciarsi le scarpe senza sedersi sul letto. In piedi, chino sulle scarpe, gli arriva a pochi minuti dalle nozze una fitta alla schiena: il colpo della strega. Come in un film di Woody Allen, come in un romanzo di Philip Roth, le vicende del corpo assumono una valenza simbolica e umoristica: sua moglie Maria a distanza di anni riderà ancora, dicendogli che quello era un segno premonitore. Qual è lo spirito necessario a tenere insieme tragedia e commedia con questa speciale tenerezza, con questa rivendicazione di spensieratezza? La domanda di tutti, di uno scrittore e di un lettore, di un nipote e di un figlio, non può che essere una: che cosa avrei fatto io, al posto loro? Che cosa avrei pensato io? Claudio Bondì, nato a pochi giorni di distanza da suo cugino Stefano, pensa al viaggio di nozze dei suoi genitori nel nord Italia nell’estate del 1943, “cuore a cuore”, come annotò il neomarito ventenne, e dà voce a questo interrogativo: “A vederlo, sentirlo, con gli occhi di oggi e il senno di poi, il fatto stesso che questo viaggio di nozze abbia potuto realizzarsi rimane un mistero. C’è una leggerezza che solo l’amore è capace di garantire a due ragazzi che riescono a guardare il futuro sorridenti e felice. E sì che mia madre a sedici anni era stata espulsa dal liceo Virgilio e mio padre, a diciannove, dalla facoltà di Economia. Penso a come sarei stato io nelle loro condizioni: ma non trovo parole e resto incantato dalle loro, che non conosco e posso soltanto immaginare”.

 

E’ tutto intimamente intrecciato, ricordi, diari, lettere, documenti, pensieri, voci di nonni, padri, figli e nipoti attorno in fondo a un’unica storia con molti passaggi di testimone, e con punti di vista diversi, attenzioni diverse: Stefano Piperno indugia sulla concretezza degli oggetti, sulle ricette dei cibi, le stoffe, le pettinature, i metri quadri degli appartamenti, Claudio Bondì vuole ricostruire nel dettaglio l’albero genealogico, scava nei sentimenti e nella solennità, ma entrambi cercano in ogni pagina la felicità, e non il suo contrario. La fortuna, l’amore, il desiderio di frivolezza, uno stato mentale incline a riconoscere soprattutto il buono.

 

Nessuno può dimenticare la pagina di diario in cui Anna Frank si rifiuta di cedere alla cattiveria dell’uomo: “Mi è proprio impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria e della confusione”. Ed è proprio impossibile portare un figlio nella pancia, come Maria e Gianna, appena sposate, e non credere, con tutta la forza della giovinezza: ci salveremo, avremo da mangiare, ritorneremo a vivere, andremo ancora al mare. E’ anche impossibile non esultare per il racconto del magnifico ingegno e coraggio del professor Giovanni Borromeo, nel 1943 primario dell’ospedale Fatebenefratelli sull’isola Tiberina, che si scusa con Maria per poterle mandare solo un mazzo di fiori per le sue nozze ma le augura tanta felicità. Tanta felicità nel 1943, un futuro radioso a una ragazza ebrea, nel 1943. Giovanni Borromeo è stato proclamato “giusto tra le nazioni” per avere inventato, insieme ad altri due medici, un morbo inesistente, orrendo e contagiosissimo: il morbo di K. Insieme questi tre dottori ricoverarono circa un centinaio di ebrei finti malati, il 16 ottobre 1943, indossarono mascherine e si dichiararono preoccupatissimi per lo scoppio della terribile epidemia. I nazisti rinunciarono a controllare i malati di persona e se ne andarono. I finti malati furono salvati.

 

Un’unica storia con molti passaggi di testimone, e con punti di vista diversi. Il magnifico ingegno del prof. Borromeo e il morbo di K.

Maria, la madre di Stefano Piperno, si salvò anche lei in un modo avventuroso, per due o tre minuti al massimo di anticipo sulla sfortuna, quindi per due o tre minuti di fortuna e di coraggio, suo e degli altri. La cugina cattolica da cui si nascondeva le chiese di andarsene la mattina del 15 ottobre: aveva troppa paura dei controlli della polizia. Maria si trovò in strada, il giorno prima del rastrellamento di Roma, ventenne incinta con una piccola valigia, senza sapere dove andare: non voleva cercare suo marito in Vaticano e i suoi genitori in convento per timore di farli scoprire. Vagò pericolosamente per la città piena di nazisti, e infine decise di andare a dormire nella casa vuota dei suoi genitori, a Monteverde: le chiavi le aveva un vicino di pianerottolo. Un’altra vicina non ebrea le offre la cena, Maria racconta quel che le è successo e poi va a letto. La mattina dopo, molto presto, la vicina scende come sempre per comprare il latte e una copia del Messaggero e vede un camion militare tedesco, pieno di SS armate. “Come una forsennata, risalendo i gradini due a due, raggiunge l’appartamento dove mia madre dorme, suona il campanello, ma bussando contemporaneamente col pugno”. Sente il vociare dei militari da basso, il rumore degli stivali, mentre Maria le apre la porta in camicia da notte. Anche gli altri vicini escono sul pianerottolo e accompagnano Maria sul terrazzo condominiale, dove ci sono i cassoni dell’acqua. Restano tutti lì, nascosti e tremanti per più di un’ora, finché le SS se ne vanno senza nemmeno un ebreo, perché sono tutti già scappati. “Mamma mi ha sempre detto di essersi sentita morire e di avere continuato a battere i denti per molte ore”.

 

“Così, caro Claudio, tu e io abbiamo rischiato di non venire al mondo, tu capriolando nella pancia di zia Gianna sotto le bombe che colpirono la clinica Villa Bianca, dove zia si trovava a partorire; io esposto al rischio di venire ucciso dal gas in un campo di concentramento insieme a mia madre”.

 

Salvarsi per due o tre minuti di anticipo sulla sfortuna. O per il coraggio di qualcun altro. Nessuno di noi può sapere che cosa è stato

Stefano Piperno è nato il 5 aprile 1944 parzialmente albino, per un’anomalia di natura traumatica. Lo spavento di sua madre ragazza con le SS alla porta. Ma anche in questo racconto spaventoso si indugia molto di più sulla presenza di spirito della vicina di casa, sulla generosità e sul coraggio dei conoscenti, sulla felicità di riabbracciarsi, e su una frase che ritorna spesso: “Siamo stati molto fortunati”.

 

C’è in queste parole, in questo riserbo e pudore verso il senso del tragico, il profondissimo rispetto per le sciagure di parenti e sconosciuti dei quali non si potrà mai dire: io lo so che cosa è stato. Nessuno di noi può sapere che cosa è stato (quel giorno le SS prelevarono 1.265 ebrei dalle loro case per portarli ad Auschwitz da cui tornarono quindici uomini e una donna, 820 furono uccisi col gas il giorno stesso).

 

Alessandro Piperno ha citato nella sua postfazione Elie Wiesel: “Quelli che non hanno vissuto quell’esperienza non sapranno mai che cosa sia stata; quelli che l’hanno vissuta non lo diranno mai; non veramente, non fino in fondo. Il passato appartiene ai morti, e il sopravvissuto non si riconosce nelle immagini e nelle idee che pretendono di descriverlo”. E davanti al mistero del passato si può reagire in modi diversi. Con la forza della vita che va avanti, anche. Cercando una Topolino di seconda mano per portare i figli che avevano rischiato di non nascere al mare a Santa Marinella. Inseguendo con ostinazione la felicità. Vendendo stoffe di negozio in negozio sopra un carrettino da tirare a mano. Cucinando il più possibile. Riempiendo la casa di gente vociante e la tavola di ospiti. E a volte dimenticare, a volte ricordare. Stefano Piperno ha impresso nel colore degli occhi e nei capelli candidi quel terrore indelebile.

 

Scrive Alessandro Piperno: “Mentre io e mio fratello, la terza generazione, eravamo alle prese con i nostri studi eruditi sull’origine e la natura del Male, essi – che di quel male erano stati vittime – preferivano concentrarsi sulle diuturne faccende della vita: la famiglia, i figli, il lavoro, il sesso, l’adulterio, il cibo, lo svago, i viaggi, guardandosi bene dal ripudiare la frivolezza, l’incoscienza e l’irresponsabilità che li aveva assistiti anche durante gli anni più terribili”. La fiducia magari insensata, che ha sorretto anche Anna Frank, che tutto sarebbe tornato a volgersi al bene.

  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.