La morte di Chatterton di Henry Wallis

una fogliata di libri

Quando oltre la giovane morte c'è il capolavoro

Daniele Mencarelli

Trentacinque anni fa moriva Beppe Salvia. Parlare di lui è parlare della poesia, poesia come incarnazione vivente, come squarcio di presenza e significato

Caro Beppe, te ne andasti il 6 aprile del 1985, volontariamente, sono passati 35 anni dalla tua fuga dalla vita, ma resti come una stella piantata nel cielo, libera e bella, luminosa di parole indimenticabili.

 

Parlare di Beppe Salvia è parlare della poesia, poesia come incarnazione vivente, come squarcio di presenza e significato, la sua stessa parabola terrestre sembra fatta di versi.

 

Salvia nasce nel ’54 a Taranto, a Roma inizia a frequentare la scena letteraria della Capitale, in particolare intreccia amicizia e arte con quel gruppo di poeti e critici che daranno vita alla meravigliosa avventura della rivista Braci. Claudio Damiani. Arnaldo Colasanti. Marco Lodoli. Giuseppe Salvatori. Gino Scartaghiande. Sono tutti ragazzi in mezzo a un mondo in frantumi, colgono con certezza un’evidenza: la poesia non interessa più, sta perdendo aderenza con il mondo, con i lettori. I responsabili di questa lenta agonia sono diversi: in primis le avanguardie. La zavorra ideologica.

 

Loro vogliono tornare a una poesia che sappia dire il mondo, alla semplicità quale gesto ultimo, ai maestri latini, a Petrarca, perché l’uomo procede in avanti solo quando sa tornare con dedizione e reale trasporto ai maestri. Non di meno, poesia come gesto di relazione tra uomini e mondo.

 

Beppe Salvia scova il gruppo che diventerà fondatore di Braci a Sant’Agata dei Goti, rione Monti, condivide con loro il suo lavoro, che sembra mandato a confermare le speranze di tutti: è possibile una nuova poesia. Una nuova Lingua. Una nuova storia d’amore tra poeti e lettori.

 

I suoi testi sono sinonimi della luce, luce che chiarisce e scalda. Un gesto ultimo, disperato ma senza sgomento per dirla con Caproni. Un vertice che chi incontra non può più dimenticare.

 

Qualche anno fa, con Claudio Damiani mi ritrovai a parlare di Beppe, io avevo appena trovato su una bancarella una reliquia conservata con cura ossessiva: Estate, il libro di Salvia pubblicato con lo pseudonimo Elisa Sansovino. Il racconto di Damiani accrebbe a dismisura il fascino verso questo poeta totale e scarno. Perché Salvia era un enigma anche per loro, uno che sapeva tantissima poesia a memoria ma che apparentemente non possedeva libri. Un animale selvaggio che nessuno riusciva veramente a catturare e interpretare. Memorabile fu il suo comportamento al Festival della poesia di Villa Borghese nel 1984, quando decise di non leggere al suo turno, lasciando vuoto il palco. Quasi a invitare a una riflessione, a una sottrazione futura: l’assenza come fuga in avanti, dalla vita. O, sempre sotto pseudonimo, le poesie che pubblicò su L’oca parlante, rivista romana, sotto il nome di Silvia Isola, nata a Città di Castello nel 1962…

 

La plaquette Estate, a firma Elisa Sansovino, nella nuova edizione a cura di Beppe Salvia (Il Melograno-Abete Edizioni) affermò la maestria versificatoria di questo ragazzo dalle suole di vento. Ma il meglio doveva ancora venire, il meglio era all’orizzonte. Anzi. Oltre.

 

Gli articoli dei giornali furono pochi. In fondo era un ragazzo di trent’anni. Che fosse poeta, il mondo ancora non lo sapeva, lo sapevano in pochi, che ne hanno tramandato le parole.

 

Paese sera gli dedicò una pagina. L’articolo principale era a firma Marco Lodoli. Il principio dell’articolo è esso stesso personaggio vivente nel racconto di Salvia: Beppe Salvia è morto a Roma, a trent’anni, gettandosi dalla finestra di casa sua sabato 6 aprile, a Via del Fontanile Arenato. Ho sempre avuto l’impressione che abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome liricamente simbolico. Poco più sotto un altro articolo, a firma Arnaldo Colasanti: Componeva il verso come sperpero di luce.

 

Salvia era questo, un fitto dedalo di nomi diversi, pseudonimi poetici, spesso bambini, fanciulli che piangono per quanto amano. Ma la morte s’inginocchia di fronte alla poesia, non la sopporta perché le è superiore. Oltre la morte di Salvia c’è il capolavoro. C’è Cuore, cieli celesti (Rotundo 1988). Una raccolta che riprende pubblicazioni precedenti su rivista, oltre a composizioni inedite.

 

A scorrere le sezioni di Cuore, cieli celesti, si piange dalla bellezza e dal furore.

 

Ma oggi, a distanza di 35 anni dalla tua morte, è altro che chiede ascolto, che esplode dal cuore. Sia maledetto il male che ti ha portato via, che ha tolto a tutti noi la tua voce, solo questo oggi viene da dire. Tu, ora, stai nella casa che hai costruito da vivo:

 

Adesso io ho una nuova casa, bella / anche adesso che non v’ho messo mano / ancora. Tutta grigia e malandata, / con tutte le finestre rotte, i vetri / infranti, il legno fradicio. Ma bella / per il sole che prende ed il terrazzo / ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia, / e perché da qui si può vedere quasi / tutta la città. E la sera al tramonto / sembra una battaglia lontana la città. / Io amo la mia casa perché è bella / e silenziosa e forte. Sembra d’aver / qui nella casa un’altra casa, d’ombra, / e nella vita un’altra vita, eterna.

 

I baci, Beppe, sono bellissimi doni. Grazie.

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