Edvard Munch, “Vampire” (1895)

Fosca, orrendo e sublime gioiello dell'Ottocento italiano

Giulia Ciarapica

La storia d’amore con la donna più ripugnante della letteratura italiana.Il capolavoro incompiuto di Tarchetti 

“Venti giorni dopo la convalescenza di Fosca, io non aveva già più né salute, né coraggio, né speranza di sopravvivere a quella sciagura”. Sono queste le parole sature di terrore e rassegnazione che Igino Ugo Tarchetti – fra gli autori più celebri e rappresentativi della Scapigliatura milanese – ha messo in punta di labbra a Giorgio, protagonista suo malgrado della storia d’amore con la donna più ripugnante della letteratura italiana: Fosca, che dà il titolo all’omonimo capolavoro parzialmente incompiuto di Tarchetti (uno dei capitoli più importanti di questa storia, che inizialmente uscì a puntate sulla rivista “Il pungolo”, venne scritto da Salvatore Farina a causa della sopraggiunta morte dell’autore. Oggi l’opera è stata ripubblicata dalle Edizioni Lindau).

  

Per descrivere Fosca abbiamo usato il termine ripugnante. Perché di questa donna dalle fattezze umane ma dagli atteggiamenti animaleschi, imprevedibili e feroci, mostruosa nell’aspetto, dalla lunga capigliatura corvina scomposta e pur tuttavia ben educata e molto colta, non si può che parlare ricorrendo a una terminologia propria della sfera dell’orrido, tipica di certa letteratura gotica. Nonostante siano trascorsi ormai centocinquantuno anni dalla pubblicazione del romanzo (e dalla morte dello scrittore), Fosca resta un vero e proprio “unicum” nel panorama letterario italiano, uno di quei personaggi femminili che non ha avuto eguali né prima né dopo. V’è un solo esempio lontano nel tempo – parliamo del Seicento – a cui potremmo appellarci se vogliamo disquisire di donne isteriche, nevrotiche, alterate al punto da sentirsi più vicine al Diavolo che non a Dio: è la “Bellissima spiritata” di Claudio Achillini, che nei suoi versi riecheggianti d’ispirazione barocca scrive: “Maledice ogni lume errante e fiso / e par che contra Dio la lingua arroti. / Che miracolo è questo, o sacerdoti, / che Lucifero torni in paradiso?”. Il poeta descrive la donna da lui amata, quando si trova in Chiesa, come se fosse impossessata dal Demonio ma, in questo caso, non c’è una reale somiglianza con la natura di Fosca, la quale è soprattutto contraddistinta da una bruttezza senza pari.

  

Fosca, dunque, che con le sue nevrosi, le travolgenti isterie e delle grida lancinanti, avvinghia a sé il malcapitato Giorgio (innamorato, invero, di una donna di nome Clara: venticinquenne dall’aspetto incantevole, amante piena di vita e fanciulla raggiante, sebbene già maritata, fedifraga e per questo non del tutto affidabile), travolgendolo in una spirale di malattia e ossessione che pure è tipica della letteratura scapigliata (ove il culto della morte viene ripetutamente affrontato come tema principe), può considerarsi il primo esempio di donna-vampiro “all’italiana”. Già, perché di Fosca non potremmo dire che si tratti di una donna-vampiro tradizionale, quantomeno non del tutto.

  

Prima di lei c’è Aurelia, protagonista del racconto di Hoffmann sul vampirismo (1821) che tuttavia non può essere ancora accomunata alla “classica” donna-vampiro di cui si è parlato in seguito – ossia la “Carmilla” di Joseph Sheridan Le Fanu (1872), primo vero esempio di vampirismo al femminile nella storia della letteratura gotica –. Aurelia presenta più che altro una nevrosi acuta generata da laceranti rapporti materni, non un vero istinto a nutrirsi del sangue altrui come accade in Carmilla. Dunque, sul piano più specificatamente umano, emotivo e comportamentale, potremmo accomunare la Fosca di Tarchetti (che non è un vampiro poiché non beve sangue) all’Aurelia di Hoffmann, considerando comunque che anche con la Carmilla di Le Fanu vi sono dei punti in comune.

  

Fosca, esattamente come le donne-vampiro, asseconda la sua natura succhiando la linfa vitale del proprio amante, si serve delle sue energie e lo restituisce al mondo spompato psicologicamente, privo di forze. Ma lei, che a differenza di tutte le altre non gode del vantaggio della bellezza, si oppone, come personaggio, a ogni canone tradizionale: Tarchetti, assieme a Fosca, si immerge nella materia oscura, orrorifica, per non riemergerne mai più. Non contempliamo la donna angelica del Dolce Stil Novo, né ci avviciniamo alla Laura di Petrarca o alla più “agreste” – ma non ingenua – Lucia manzoniana: qui abbiamo una donna inedita, tanto brutta quanto malata, tanto isterica quanto sagace. Fosca diventa, a conti fatti, un archetipo femminile satanico, straordinario nella sua unicità anti borghese e anti campagnola. Un gioiello della letteratura italiana del tardo Ottocento.

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