Guido Roberto Vitale

Guido Roberto Vitale, un maestro in lotta contro le tre bestie della democrazia

Beniamino Piccone

Era un predicatore nella terra degli infedeli. Un italiano anomalo: grande innovatore, lungimirante, intollerante verso il compromesso. Il ricordo a un anno dalla scomparsa

Quando l’Italia del maestro Manzi leggeva la Gazzetta dello Sport per familiarizzare con la lingua italiana, Guido Roberto Vitale leggeva il Financial Times. Laureato brillantemente in economia – senza lode perché il barone di turno scoprì di non essere citato nella tesi sulle operazioni di mercato aperto della Federal Reserve – all’Università di Torino, Vitale partì per Londra e New York (specializzato alla Columbia University), per poi lavorare a Mediobanca. Possiamo dire che abbia portato il merchant banking in Italia attraverso Euromobiliare, fondata da lui nel 1973.

 

Guido Roberto Vitale, scomparso giusto un anno fa, era un alieno in territorio straniero. Un predicatore nella terra degli infedeli. Un italiano anomalo: grande innovatore, lungimirante, intollerante verso il compromesso (si dimise appena Michele Sindona comprò la Centrale finanziaria, nonostante gli fosse stato offerto un assegno in bianco), fautore del merito, affascinato dai giovani, trasparente. Praticamente, la nostra classe dirigente al contrario. Dove regnava il sotterfugio, lui voleva chiarezza. Amava la competenza e le persone preparate. Ai tempi dell’“uno vale uno”, un extraterrestre. Credeva nei giovani, veramente, li spronava in continuazione. Ne serbo testimonianza diretta. Un vero talent scout. Ha allevato da maestro di vita una generazione di persone alle quali raccomandava il rispetto rigoroso delle regole, degli investitori, del mercato.

 

Quando Vitale fondò la Vitale e Associati (2001), decise di pubblicare ogni due anni un volume da regalare ai clienti, con l’obiettivo di favorire il dibattito nella classe dirigente, secondo lui tra i maggiori responsabili del declino italiano. La cultura, per lui, aveva un valore imprescindibile. E doveva legarsi a un piano d’azione. Sono diversi i libri pubblicati negli anni. Uno, edito nel 2008, ricordava il pensiero economico di Luigi Sturzo, formidabile intellettuale e politico, tra i primi a combattere contro lo statalismo: “Di bestie enormi della democrazia ne ho individuate proprio tre: lo statalismo, la partitocrazia, l’abuso di denaro pubblico; il primo va contro la libertà, la seconda contro l’eguaglianza, il terzo contro la giustizia”.

 

Nel volume del 2015 di Sergio Romano “Breve storia del debito da Bismarck a Merkel”, nell’introduzione di Fabrizio Saccomanni si deprecava l’atteggiamento schizofrenico di fare crescere il deficit pubblico con le politiche keynesiane (“all’italiana”, cioè – come diceva Marcello De Cecco – favorendo i soliti noti) e al contempo dichiarare di volere ridurre il debito. Se il debito pubblico è la somma dei deficit del passato, non si capisce come possa essere ridotto aumentando la spesa pubblica corrente. Non a caso il compianto civil servant in nota vergava così: “Il nesso tra debito e deficit era ben chiaro al signor Micawber, personaggio di David Copperfield di Dickens, il quale, imprigionato dai debiti nel carcere di Marshalsea a Londra, predicava una sua filosofia economico-morale: ‘Reddito annuale venti sterline, spesa annuale diciannove sterline e sei pence, risultato: felicità. Reddito annuale venti sterline, spesa annuale venti sterline e sei pence, risultato: miseria’”.

 

Alessandro Galante Garrone definiva quelli che considerava i suoi maestri “i miei maggiori”. Vitale è stato sicuramente uno di essi. Milano e l’Italia perdono con lui un ulteriore punto di riferimento. Dopo Umberto Eco, Umberto Veronesi, Inge Feltrinelli e altri nostri “maggiori”, ci troviamo ancora più orfani senza Vitale. Quando se ne vanno i migliori, siamo indotti a pensare che non ci siano eredi all’altezza. Allora impegniamoci con la passione civile dell’Italia migliore, dell’“altra Italia”, quella laica sognata da Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Carlo Azeglio Ciampi e Guido Roberto Vitale, che nell’ultima telefonata mi disse: “Lasciamo lavorare le intelligenze”.

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