Una scena del film Blade Runner

Mondi che scompaiono e altri che sembrano scritti da un profeta biblico

Vanni Santoni

Barjavel e l’obliquo Malaquais: romanzi distopici da riscoprire

Che i romanzi distopici avessero stancato, lo si diceva già un paio di anni fa, quando sembrava che non uscisse altro, e ben presto sono venuti a noia anche i cugini di primo grado, quelli post-apocalittici. C’entra forse il raggiungimento delle distopie da parte di una realtà che pare mettercela tutta anche per arrivare al post-apocalittico; ma sbaglierebbe chi, a una legittima ripulsa per nuovi romanzi di questo tipo, affiancasse anche un rifiuto di quelli già in esistenza. Sono molti, infatti, i gioielli nascosti, alcuni dei quali, grazie all’azione di editori indipendenti dediti alla rischiosa pratica del “recupero”, tornano a vedere gli scaffali nostrani.

 

Un editore che delle riscoperte ha fatto manifesto è L’Orma – si pensi solo all’opera omnia di E.T.A. Hoffmann – e all’interno di questo percorso merita considerazione la riproposta dei romanzi di René Barjavel, il cui carattere variegato può essere desunto già dai primi due titoli proposti, nella traduzione di Anna Scalpelli: “Il mago M.”, riscrittura del mito arturiano uscita lo scorso luglio, e “Sfacelo” (tradotto assieme a Claudia Romagnuolo), pilastro classe ’43 della fantascienza europea classica (la sua prima uscita italiana, col titolo “Diluvio di fuoco”, fu per Urania nel 1957) che tuttavia, per il suo carattere ambivalente – sci-fi puro nella prima parte, post-apocalittico nella seconda – ben si inserisce nell’attuale vague distopico-escatologica.

 

Sarebbe una forzatura definire “Sfacelo” un libro profetico, almeno secondo il significato letterale del termine: l’unica profezia che azzecca è quella della carne coltivata, laddove il resto del suo mondo non assomiglia granché al nostro né a uno dei plausibili futuri che abbiamo davanti. Appaiono oggi improbabili sia i tratti distintivi della civiltà pre-apocalittica (su tutti la conservazione dei cadaveri degli avi in frigoriferi a vista incorporati negli appartamenti), sia la modalità del suo collasso, un’inspiegata “scomparsa dell’elettricità”; e tuttavia “Sfacelo” è decisamente profetico – nel senso che sembra scritto da un profeta, di quelli biblici – nei toni foschi, nel piglio accorato, nelle visioni di fuoco ínfero, nel sogno di un eden da ritrovare.

 

A “Sfacelo” si può affiancare – e del resto lo fa tra le uscite recenti – un altro libro di fantascienza francese, a esso successivo di dieci anni (e soltanto uno nella prima edizione italiana: uscì per la fu Martello Editore nel 1958), a sua volta recuperato da quella Cliquot che già si era fatta notare per il prezioso ritrovamento dell’inusuale “Gomoria” di Carlo H. De’ Medici. Si tratta della “Città senza cielo” di Jean Malaquais, personaggio ben più obliquo di Barjavel, che era pur sempre un rispettato sceneggiatore cinematografico: poverissimo, Malaquais si fece assumere come assistente da Gide dopo un aspro scambio di lettere nato da un articolo in cui questi millantava un’indigenza giovanile del tutto immaginaria, e finì poi in America, a far da traduttore di Norman Mailer, che della “Città senza cielo” firma l’introduzione, e scrivendo di “un orrendo mondo di computer e incorporea appariscenza, dove ciascuno è la superstar di sé stesso e le molecole d’aria graveolenti di plastica sono costrette a girare perennemente in circolo nelle bocche dei condizionatori,” ne sancisce un carattere che in questo caso è “profetico” anche letteralmente.

 

La scuola è quella di Kafka, più che di Orwell, e l’incubo frattale, non sempre coerente (ma affascinante, spesso, proprio per la sua incoerenza) del venditore di cosmetici Pierre Javelin, che un giorno scopre che tutto il mondo che conosceva (a cominciare dall’interno del proprio appartamento) non esiste più, appare oggi, nonostante i caratteri da stato si polizia del mondo in cui si ambienta, non tanto come una distopia atipica, ma come qualcosa da affiancare, senza tema di esagerazioni vista la ricchezza dell’immaginario, al “Lanark” del da poco scomparso Alasdair Gray come antesignano occulto del miglior post-materialismo contemporaneo.

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