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Gestire la cultura

Filippo Cavazzoni e Alberto Mingardi

Franceschini ha riportato al Mibact alcune sue vecchie (e buone) idee. Ma resta da fare ancora tanto

Roma. Che la cultura sia il petrolio dell’Italia è un’espressione retorica, forse vera in un senso diverso da quello comunemente inteso. I paesi petroliferi, resi ricchi dal greggio, sono spesso caratterizzati da cattive istituzioni: siccome c’è, per l’appunto, il petrolio, non hanno bisogno d’altro. Il rischio è che anche il nostro patrimonio culturale finisca così: è talmente vasto e ricco che, per paradosso, non ha bisogno di istituzioni ben funzionanti. Non è allora una cattiva notizia che siano tornate, in casa Mibact, diverse misure che Franceschini aveva fortemente voluto durante la sua precedente apparizione al Collegio romano. Nelle “novità” annunciate non c’è nulla di particolarmente rivoluzionario: è già stata fatta un’ampia riforma del sistema museale e ora si pensa solamente ad approntare dei ritocchi. Di strada da percorrere però ce ne sarebbe ancora.

 

L’attuale assetto ha molti limiti: il primo è avere adottato un sistema che, nonostante l’individuazione di musei autonomi, risulta ancora troppo rigido. La forma di gestione dei vari soggetti andrebbe infatti decisa tenendo conto delle specificità delle istituzioni stesse e dei territori su cui risiedono. Le città d’arte possono beneficiare di un bacino di turisti che altri luoghi non hanno, le zone più dinamiche del paese forse potrebbero sostenere con donazioni private ciò che altrove è appannaggio del pubblico. Come evidenzia Antonio Leo Tarasco, nel suo recente libro Diritto e gestione del patrimonio culturale (Laterza), da sponsorizzazioni, donazioni, prestiti di opere, concessione di spazi, ecc. gli introiti sono modesti. Degli oltre 300 milioni di euro raccolti fra il 2015 e il 2018 grazie all’Art bonus, solamente lo 0,7 per cento è stato destinato ai musei statali; nel 2017, gli stessi musei statali hanno stipulato contratti di sponsorizzazione pari allo 0,63 per cento del totale dei loro introiti lordi. In media il 90 per cento dei ricavi dei musei statali proviene dalla vendita dei biglietti, mentre le altre potenziali fonti di entrata sono marginali. Sono numeri che mostrano come questi due strumenti (Art bonus e sponsorizzazioni) siano stati per varie ragioni ampiamente sottoutilizzati. Ci sono tuttavia anche storie positive: a Venezia la fondazione che riunisce i musei civici della città ha dimostrato capacità di generare ricavi propri. Pochi casi simili si sono verificati con i musei statali, il solito che viene citato è quello del Museo Egizio di Torino, altro esempio di istituzione culturale ben gestita.

 

Un panorama ancora troppo uniforme

Avere turisti o finanziatori non basta, bisogna che ci sia pure la volontà di spingersi oltre un panorama che è ancora troppo uniforme. L’autonomia concessa ad alcune decine di musei statali è un fatto positivo, come sostiene anche un recente studio della Banca d’Italia (“Innovazioni nella governance dei musei statali e gestione del patrimonio culturale”), ma a tutti questi è stato fatto indossare lo stesso vestito, che magari è troppo largo per alcuni o troppo stretto per altri. Un’autonomia, poi, che com’è stato rilevato più volte non va oltre un certo grado, non contemplando quella per il personale. Se un manager non può scegliere i fattori produttivi di cui ha bisogno, non si capisce davvero quali siano i suoi margini di manovra. C’è da chiedersi se in questa situazione non pesino anche competenze ed età dei professionisti del settore. Il discorso non riguarda solo i musei ma tutto il mondo della cultura. Come ha certificato con una inchiesta il mensile Classic Voice, i sovrintendenti delle nostre fondazioni liriche sono i più anziani tra i principali teatri europei. Altre nomine dei prossimi mesi (dalla Biennale di Venezia alla Galleria Borghese) saranno un importante banco di prova. Non si vede all’orizzonte una generazione di professionisti che abbiano visione e approccio internazionale, e che abbiano potuto accumulare esperienza senza sentirsi necessariamente eternamente vincolati a posizioni di secondo piano. Se non mancano giovani che svolgono attività culturali di successo, questi sembrano tenuti alla larga dalla Serie A delle istituzioni del paese (Carlo Chatrian è appena stato nominato al vertice della Berlinale…), che restano spesso terreno di gioco per figure dal passato ingombrante. Sulle loro capacità, spesso, non ci sono dubbi ma il rischio è che quando si arriverà a successioni rese inevitabili dall’età, o dai cambiamenti politici, l’Italia si trovi, anche in questo campo, sguarnita di una classe dirigente degna di questo nome. E si finisca per lasciare il petrolio in mano ’e creature.

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