Il problema della nostra scuola è che troppo spesso impedisce di studiare

Alfonso Berardinelli

Un sistema immiserito. Ancora sul libro di Galli della Loggia

Dedicato alla memoria di Cesare De Michelis, editore, intellettuale, critico letterario che ha dato contributi da non dimenticare all’autocoscienza della sua e nostra generazione, nata con la fine del fascismo, ora Ernesto Galli della Loggia pubblica un libro che dovrebbe dare una scossa (me lo auguro) all’anestetizzata opinione pubblica nazionale: L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, 239 pp., 18 euro). Si tratta di un pamphlet appassionatamente morale e civile, ed è un bene che a scriverlo sia stato uno storico e analista politico come lui e non un retore psico-pedagogico o uno specialista di burocrazie riformiste.

 

Oggi come ieri, oggi più di ieri, parlare di scuola significa infatti parlare di tutto: di infanzia, adolescenza e giovinezza, di lavoro, di coscienza civile, di democrazia, di forme e contenuti culturali, di comportamenti e di mode ideologiche, di senso del passato e del futuro, di nuove tecnologie e del loro dispotismo, di rapporto fra scienze esatte e scienze umane, o studi umanistici.

Un paese come l’Italia, il cui sistema scolastico è immiserito, delegittimato, malgovernato o non governato da decenni, sta diventando un paese senza futuro e senza speranza, che dissipa criminosamente gli anni giovanili dei suoi futuri cittadini.

 

In Italia parliamo troppo di politica e di politici. Parliamo invece pochissimo o quasi mai di scuola, formazione degli insegnanti, mentalità dei dirigenti scolastici, programmi di studio, situazione e condizioni quotidiane della vita scolastica. In verità, niente come la scuola rispecchia la società e niente è più strettamente connesso con la politica, lo stile della comunicazione fra generazioni e il rapporto fra creatività e normatività. Ormai da anni, quando si parla dell’Italia, i primi termini che vengono in mente, i più desolatamente usati, sono “tramonto” e “declino”: termini riferibili sia alla classe politica che alle istituzioni culturali, sia alla sottocultura diffusa che allo svuotamento culturale delle stesse élite e alla viltà con cui accettano senza vere reazioni critiche ogni cosiddetto progresso innovativo, ogni prodotto tecnologico, ogni moda concettuale, estetica, linguistica.

 

Il nostro è un paese che dopo essere arrivato tardi alla modernità, intorno al 1960, raggiungendo con rapidità sorprendente i livelli più avanzati di sviluppo industriale e di vivacità culturale, si è poi gradualmente paralizzato. Non solo la sua modernizzazione non ha retto alla prova del tempo e della continuità; a questo si è aggiunta una endemica tendenza oscuramente autodistruttiva, dovuta soprattutto a un debolissimo senso della propria dignità e identità storica. Tutti questi temi (particolarmente cari a Galli della Loggia) non si sono mai imposti all’attenzione pubblica, né hanno influenzato i processi politici. Retorica e approssimazione hanno sempre avuto la meglio e credo che ormai sia troppo tardi per rimediare a difetti storici e a danni compiuti. Siamo una società in apparenza piena di energie, ma in realtà depressa e corrotta dalla mancanza di regole certe e da una incorreggibile latitanza dello stato, a sua volta corrotto da mancanza di regole accettate e rispettate.

 

Ma i discorsi sulla scuola è difficile riassumerli decentemente in un articolo di giornale. Per non diventare noiosi, hanno bisogno anche di aneddoti (l’aneddoto è un bel genere letterario, ingiustamente trascurato nella prosa degli storiografi modernamente “scientifici”). Il primo aneddoto lo devo a un amico, ottimo maestro di scuola elementare. Nei corridoi del suo istituto (ancora non c’era il divieto di fumare nei locali pubblici) era affisso più di un cartello con la scritta “Vietato fumare”, ma gli insegnanti fumavano e i bambini vedevano gli insegnanti fumare davanti a quei divieti. Allora lui propose: cari colleghi, se non volete smettere di fumare, dovete togliere quei cartelli, perché non c’è niente di più diseducativo della regola proclamata e dell’infrazione pubblicamente reiterata. Ovviamente vennero tolti i cartelli e gli insegnanti continuarono a fumare con la coscienza a posto. Pensate: se nel primo articolo della Costituzione fosse scritto “L’Italia è una Repubblica fondata sulla corruzione”, il problema sarebbe risolto, la corruzione sparirebbe da un giorno all’altro. Come dicono infatti i moderni linguisti antinormativi, a fare la regola è l’uso. Quando un’azione socialmente prevale, si “grammaticalizza” e il difetto diventa norma.

 

Il secondo aneddoto riguarda gli anni in cui mio figlio frequentava il liceo Visconti. Il suo professore di Storia dell’arte era un brillante chiacchierone che parlava continuamente di Sgarbi e di estetica televisiva, ma li lasciava ignari del fatto che a cinquanta metri dal portone della scuola c’era la Galleria Doria Pamphili contenente almeno una decina di indimenticabili capolavori. Un tale professore, per non complicarsi la vita, aveva evitato di prescrivere l’acquisto di un libro di testo. Dopo un po’, stufo di quelle genericità modernizzanti, comprai un bel manuale in tre volumi, magnificamente illustrato e lo diedi a mio figlio. Aveva sedici anni e sfogliando lentamente e con grande attenzione il libro, gli uscì spontanea questa frase: “Certo sarebbe bello studiare!”.

Non credo che mio figlio fosse un’eccezione. Gli studenti vogliono, vorrebbero studiare. Il fatto è che non si fa capire loro che cosa questo significa. Troppo spesso la scuola impedisce di studiare.

 

C’è un punto in cui concordo particolarmente con Galli della Loggia. E’ l’idea secondo cui la scuola non deve adeguarsi, adattarsi alla società. Deve contenere qualcosa come un suo “utopismo”, che le permetta di resistere a una società sempre più “unidimensionale”. Questi termini li usa Ernesto, ma sembrano venire direttamente da Marcuse e dalla scuola di Francoforte. Non so se se n’è accorto.

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